Premio OzieriPremio Ozieri di Letteratura Sarda 

Quando nel 1956 fu bandita la prima edizione del Premio Ozieri, i poeti non seguivano una convenzione ortografica, non adottavano cioè grafie univoche per scrivere in lingua sarda. Pertanto le diverse varietà linguistiche venivano rese graficamente secondo le abitudini fonetiche del singolo poeta. Ne conseguiva una babele grafica, con forme di scrittura diverse anche per quelle parole il cui etimo poteva guidare senza problemi il poeta nella corretta scrittura: la giuria si imbatteva in grafie del tipo: Sardigna, Saldigna, Sardinna, Sasdigna.

 

Dopo circa 20 anni, grazie a mirati convegni di studio e grazie soprattutto al lavoro di una commissione presieduta dal prof. Antonio Sanna, docente di linguistica sarda nell'ateneo cagliaritano (e Presidente della Giuria del Premio, in quegli anni), dal suo collega prof. Massimo Pittau dell'ateneo sassarese e dall'esperto Enzo Espa, furono date (e spedite insieme al bando di concorso) 11 indicazioni essenziali per la “corretta scrittura del sardo”. Da allora, la maggior parte dei poeti segue convenzionalmente queste regole.

 

Offriamo qui l'elenco delle regole principali (in corsivo rosso), arricchite da osservazioni di carattere linguistico assenti nel vademecum ortografico offerto dal premio, alla luce di tutti gli studi di fonetica, morfo-sintassi ed etimologia che si sono succeduti negli ultimi anni nel panorama della Linguistica sarda. Per gli altri problemi ortografici, si rimanda all'apparato critico presente nella poesia Otieri di Barore Chessa.

 

1. Le parole vanno scritte in un'unica maniera, lasciando alle parlate locali la loro particolare pronunzia: per cui si scriverà “sardu” e non “saldu”, “mortu” e non “moltu”, “Sardigna” e non “Saldigna”.

È il cosiddetto criterio etimologico: la grafia segue l'etimo che sta alla base della parola, prescindendo dalle abitudini fonetiche dei parlanti, abitudini che, logicamente, persistono nella pronuncia.

 

2. Quando la parola inizia per consonante, questa non deve essere raddoppiata: “a notte”, non “a nnotte”.

I poeti infatti raddoppiavano graficamente la consonante come succedeva nel parlato. In “ a notte” la preposizione semplice, derivata dal latino AD, nel logudorese, allunga sempre la consonante seguente, proprio perchè originariamente terminava in consonante.

 

3. La terza persona singolare del verbo essere è sempre “est”.

Venne data questa indicazione ortografica perchè quando il verbo essere, in logudorese, alla terza persona dell'indicativo presente, è seguito da una parola iniziante per consonante, assume diverse forme: “e bellu”, “es bellu”, “el bellu”, “er bellu”. Con tale regola ortografica scriveremo tutti “est bellu”.

 

4. Le terze persone plurali dei verbi perdono la T finale (in logudorese e affini): “naran” e “narana”; “perden” e “perdene”. La conservano invece in nuorese: “narant” e “perdent”.

Non si sa se a causa di un refuso tipografico o per una confusione della commissione, ma questa regola ortografica presenta un errore: il nuorese non conserva nel parlato la –t finale dei verbi, alla terza persona plurale. Ciò accade invece nel campidanese, ragion per cui le regole ortografiche unificate proposte negli ultimi tempi prevedono la –t finale, per rispetto appunto del campidanese che supera, in numero di parlanti, il logudorese. Per quanto riguarda la scrittura della –e finale, come in “perdene”, chiamata vocale paragogica, si rimanda alla nota n. 3 della poesia Otieri di B.Chessa.

 

5. La lettera C è da usare come in italiano, quindi, per indicare il suono duro gutturale, si scriverà CH e non K; avremo quindi “chida” e non “kida”; “chena” e non “kena”; “cane” e non “kane”.

Regola ortografica che anche negli ultimi tempi ha attecchito con successo. Alcune proposte, il più delle volte sostenute da frange di estremismo sardista, vorrebbero tenere K- al posto di CH-, soprattutto per distinguersi graficamente dagli “italofoni” più che per ragioni scientifiche. Il K- sicuramente attecchirebbe nelle nuove generazioni che, per la cosiddetta economia del linguaggio la sostituiscono ormai anche quando scrivono in italiano.

 

6. La lettera D la si usi senza aggiunte; quindi “badde “ e non “baddhe”, ecc;

L'indicazione ortografica si riferisce alla D cosiddetta cacuminale o retroflessa, pronunciata appoggiando l'apice della lingua alla sommità della volta del palato. Essendo un fonema tipico sardo, qualcuno, anche negli ultimi tempi, ha voluto renderlo graficamente con DH, perchè avesse un tratto distintivo e inducesse i non sardofoni alla corretta pronunzia. Il DH potrebbe, però, ingannare ulteriormente, perchè in altre lingue indica un suono aspirato. Pertanto è prevalso l'uso della doppia D anche nelle più recenti indicazioni ortografiche e nelle proposte di lingua unificata.

 

7. La lettera H non va usata davanti alle parole e preferibilmente neppure davanti alle voci del verbo avere; per cui “omine” e non “homine”; ecc.; tantomeno nel corpo della parola: “nudda” e non “nudda”.

Tale regola ortografica fu consigliata dalla Commissione perchè era prevalso l'utilizzo della H- iniziale, secondo le abitudini grafiche latineggianti del Madao (gesuita ozierese della fine del '700) e dello Spano (sacerdote e studioso ploaghese della fine dell'800). In sardo non accade come per l'italiano in cui è necessario usare la H per distinguere la 3^ persona dell'Indicativo presente del verbo avere “HA” dalla preposizione semplice “A”, perchè si possono riconoscere

senza problemi: APO vs A.

 

8. Il suono corrispondente alla “Je” francese, va espresso con la lettera J; per cui avremo: “maju” = maggio; “ruju” = rosso e “majìa” = magia. Questo in logudorese, mentre in campidanese il suono J si scrive X: “paxi” = pace; “xelu” = cielo; “boxi” = voce

Con questa regola si fissò l'uso di rendere graficamente con J nel logudorese e con X nel campidanese (uso già assai diffuso) quel suono che i linguisti chiamano costrittiva prepalatale sonora ( la corrispondente sorda la troviamo nella parola masciu “maschio”). Le cose si complicano, quando all'interno della stessa varietà ci imbattiamo in due suoni differenti per la stessa parola. Per il vocabolo “Maggio”, in paesi confinanti (potremmo considerare i centri di Ozieri e Nughedu San Nicolò, distanti appena 4 KM), sentiamo “maju” (con il suono “francese” come in JE, ad Ozieri) e “mayu” con la semi-vocale (a Nughedu). Ecco perchè, nelle poesie pubblicate, potremmo trovare la doppia grafia maju/mayu.

 

9. Nelle preposizioni articolate, le preposizioni semplici si scrivono staccate dagli articoli: “a sos” e non “assos”; “cun su” e non “cussu”; “de su” e non “dessu” ;

Regola utilizzata perchè prevalse, prima di allora, l'uso della preposizione semplice attaccata all'articolo, come nell'italiano “agli”, “cogli” e via dicendo. La commissione, in tal modo, ha evitò i poeti di incappare in certi doppi sensi: scrivendo “est bénnidu cussu cane” potremmo intendere sia “è venuto quel (cussu) cane”; che “è venuto con il (cun su) cane”.

 

10. L'accento si usa solo nelle parole tronche: “però”, “accò”, “ajò”, ecc. Si usa pure per il sì affermazione che non deve essere confuso con il si pronome personale;

Già Max Leopold Wagner notò una certa avversione della lingua sarda per le parole ossitone, ovvero accentate sull'ultima sillaba. Esse sono numerosissime nella toponimia isolana, chiara testimonianza della lingua pre-romana. Ovviamente l'accento si usa nelle parole ossitone bisillabiche: in quelle monosillabiche è, infatti, irrilevante. Per quanto riguarda l'avverbio di affermazione si, pretto italianismo, esso è poco usato in sardo perchè esiste il più autentico emmo . Ma se usassimo il “si” in poesia, lo scriveremmo con l'accento, per non confonderlo con il pronome personale si (es. “si manigat” = mangia per se),ma anche con il pronome impersonale con funzione passivizzante (“si narat” = si racconta).

 

11.La lettera Z dolce è espressa con una sola Z: “fizu”, “boza” ecc. e quella dura, corrispondente a quella doppia italiana, è bene esprimerla con il gruppo TZ: “matzone”, “pitzinna”, ecc.

Per questa regola della z sorda e sonora, rimandiamo alla nota n.4 della poesia Otieri di Barore Chessa.

 

CRISTIANO BECCIU

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