Premio OzieriPremio Ozieri di Letteratura Sarda 

 di Gian Gabriele Cau

 

Il saggio è stato pubblicato in  «Sardegna Antica: culture mediterranee», n. 50 (2016), pp. 35-42.

 

 

In una precedente occasione, sulle pagine di questa rivista, si è trattato di una iscrizione graffita nella chiesa di S. Antioco di Bisarcio, in agro di Ozieri. Si presentò, allora, uno studio sull’epigrafe

consacratoria del principale corpo di fabbrica, portato a compimento nel 1164, durante l’episcopato del vescovo Giovanni.[1] Si ritorna sull’argomento per proporre due inediti graffiti, uno commemorativo e uno dedicatorio, che riferiscono interessanti notizie sulla costruzione della torre campanaria e dello strutturato portico a due piani, la cosiddetta “galilea”, sotto il profilo architettonico l’elemento di maggiore interesse dell’antica cattedrale. Di probabile derivazione francese, unica in ambito isolano e con pochi confronti nella Penisola, essa mostra un piano superiore con tre camere voltate a botte, di cui la prima adibita ad aula capitolare, la seconda a cappella episcopale con vista sull’altare maggiore e la terza a probabile sacrestia. Il piano inferiore è scandito da tre navate di due campate ciascuna, voltate a crociere, che scaricano su lesene e su pilastri a sezione cruciforme. Il paramento di facciata, oggi asimmetrico per il collasso statico della sezione sinistra, si caratterizza per un semitimpano a falso loggiato, con due colonnine degradanti sotto una falsa gronda, e impostato su una archeggiatura ogivale in forte aggetto sul campo liscio. Nello spazio sottostante, un’ampia monofora dà buona luce alla cappella. L’ordine inferiore è distinto da tre fornici con una ricca decorazione scultorea in rilievo, riconducibile a maestranze pisane; di questi, quello centrale dà accesso alla chiesa, il destro è aperto da una bifora e il sinistro è occluso per opportunità di consolidamento strutturale.

 

L’antica cattedrale di Sant’Antioco di Bisarcio (ante 1073 – 1195)

 

Sulla definizione della cronologia dell’avancorpo di fabbrica, il terzo ed ultimo di una articolata genesi costruttiva, della quale si conserva memoria in alcuni tratti del paramento murario presso l’area presbiteriale (ante 1112) e nel corpo principale della costruzione in stile romanico pisano (1164), si sono espressi numerosi studiosi, nell’arco di oltre un secolo e mezzo.[2] Da Giovanni Spano che, nel 1860, attribuisce la facciata al xiv secolo, ad Alberto Della Marmora che ne anticipa la costruzione alla prima metà del xiii; da Ginevra Zanetti che, nel 1953, lo colloca alla fine del xiii, a Raffaello Delogu che, nello stesso anno, lo assegna al ventennio fra il 1170 e il 1190; fino a Renata Serra e Roberto Coroneo che, dopo avere sposato la proposta del Delogu, condividono l’ipotesi di Fernanda Poli di un termine conclusivo nei primi del xiii, probabilmente negli anni del regno di Comita i (1198- 1218).

Particolare della decorazione scultorea della facciata

 

L’iscrizione rinvenuta, destinata a porre ordine tra le differenti posizioni, è tracciata a sgraffio per mezzo di un punteruolo metallico sulla parete settentrionale della cappella episcopale, al di sopra della nota epigrafe consacratoria del sacello privato del vescovo (post 1195),[3] ad una quota tra i 0,73 e i 2,77 metri dal suolo, quasi la stessa (cm 2,72) dell’iscrizione consacratoria dell’aula del 1164.[4] Dal punto di vista meramente epigrafico, si registra un formulario ampiamente collaudato che prevede la datatio accompagnata dal nome e dal titolo ecclesiatico del promotore dell’opera giunta a compimento, e dal nome e dalla qualifica del maestro ingaggiato. La più estesa almeno tra le epigrafi medievali in Sardegna (H 206 cm x L 246 cm), è unica perché, nello stesso tempo è cruciforme e associata e complementare a otto simbolici disegni, talvolta con più di un significato: la croce, la chiesa, la campana, la scala, il toro, la raggiera luminosa, il dito e l’orma del plantare di un sandalo, di cui si dirà nel corso della trattazione.

 L’impianto a croce, nello stipite, richiama idealmente la porzione destra della facciata della chiesa. A un terzo dell’altezza di questa, l’inserto di una campana allude, invece, alla torre campanaria portata a compimento dalla stessa maestranza, negli stessi anni. L’architettura della chiesa è qui definita dall’allineamento verticale di una quarantina di ordini di conci, da un solo archetto gotico rappresentativo all’archeggiatura ogivale, e dalle due colonne del semitimpano del falso loggiato, sotto il doppio spiovente della cuspide.

Fianco meridionale, torre campanaria e abside

 

L’immagine agile e slanciata del singolare stipes richiama il profilo di una torre campanaria ma anche l’impianto di una interessantissima scala, elemento ricorrente nel repertorio dei graffiti nelle chiese medievali anche in Sardegna.[5] Nella simbologia cristiana, la scala è «un segno di verticalità, d’ascensione, di relazione tra il cielo e la terra di riconciliazione tra Dio e gli uomini: Giacobbe vide in sogno un scala sulla quale salivano e scendevano degli angeli, mentre Dio benediceva la sua discendenza (Gn 28, 10-19)» ma anche «uno degli strumenti della Passione: vi si inerpicano Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea per staccare Cristo dalla croce».[6] «In età medievale era il simbolo comunemente noto della vita contemplativa tanto cara ai Benedettini ed in particolare all’Ordine Camaldolese».[7]

Epigrafe commemorativa della costruzione della galilea e della torre campanaria del S. Antioco di Bisarcio (1195).

 

Nella fattispecie bisarchiense, la scala e la scalinata sono i graffiti in assoluto più rappresentati sul paramento murario della galilea[8]. Oltre questa dello stipes, si contano almeno altri nove disegni.[9] In un ampio panorama di soluzioni grafiche, i pioli talvolta intersecano la luminosa raggiera divina, generando un disegno a scacchiera; altre volte la scala è al di sotto dell’immagine di un Crocifisso. In tutti i casi è evidente il concetto di elevazione e di accostamento a Dio proprio di questa simbologia. Potrebbe non essere un caso che il primo dei santi titolati di questa cappella sia l’apostolo Iacobus, omonimo del patriarca Giacobbe e perciò evocativo della sua scala[10].

Epigrafe consacratoria dell’altare della cappella episcopalale. Dettaglio del nome dell’apostolo Giacomo

 

Un così elevato numero di modelli induce a prendere in considerazione l’esistenza di un priorato dei monaci di Benedettini a Bisarcio. Un priorato sin qui solo presunto per l’attestazione di un discusso, anonimo ‘Priore di Bisarcio’, in un certo numero di documenti proprio dei primi decenni del xiii secolo.[11] Il sospetto è corroborato da un singolare graffito nella terza stanza, appena svoltato l’angolo d’ingresso, nel quale è rappresentata la figura di  un santo che con un libro tra le mani sovrasta un paio di scale in orizzontale, i cui pioli sono segnati tra insoliti raggi-montanti di una raggiera luminosa, evocativa della Luce divina.[12] L’atteggiamento di preghiera ricorda il motto benedettino “ora et labora”, e la Luce evoca uno status in Gloria Domini ormai raggiunto. In questi termini l’immagine evoca da vicino la nota fabula secondo cui S. Benedetto ascese al cielo su una scala, partendo dal cenobio di Montecassino.

Epigrafe che attesta l’esistenza di un Monastero dei Cistercensi a Bisarcio (fine xii inizio xiii sec.).

 

L’indizio di un priorato benedettino diviene oggi certezza per una breve, seconda epigrafe inedita, graffita su due righe, appena leggibile della terza stanza. Qui, sulla parete S, in caratteri gotici si registra un «cirstum / m ». Sotto il profilo epigrafico, nel primo termine, si pone in evidenza l’asta della «t» tagliata in capo da un breve trattino, un segno abbreviativo con significato relativo, per il quale la stessa deve leggersi «ter».[13]  Una seconda più ampia retta di contrazione si estende sui gruppi di lettere «cirster» e «um», che giustifica un’abbreviatura per contrazione mista;  per ultimo si registra un nesso tra le lettere «rs» e «um». Nella riga sottostante una «m» minuscola ma di un corpo maggiore è segnata in alto da un breve trattino, per una abbreviatura per troncamento. Sciolti i segni e le convenienze brachigrafiche, il titulus è decriptato in «cirster(cens)ium / m(onasterium)» = “Monastero dei Cistercensi”,[14] al cui ordine aveva aderito nel 1154 Gonario ii di Torres, padre di Barisone ii e nonno di Costatino ii committenti col vescovo Pietro di questa cattedrale.[15]

Il titulus della grande epigrafe commemorativa oggetto di questo studio corre, con progressione orizzontale leggermente ascendente, dallo spigolo della parete fino a intersecare e sovrapporsi allo stesso disegno della chiesa, all’altezza del secondo e terzo ordine del disegno architettonico, come un patibolo di croce, per poi concludersi con un graffito che rappresenta un toro trafitto da una lancia, immagine del Cristo sacrificale.[16] L’iscrizione si sviluppa con andamento altalenante su cinque linee, su conci perfettamente squadrati di locale vulcanite, con una scrittura mista prevalentemente corsiva, in cui sopravvivono rare reminiscenze onciali e gotiche, solo in parte giustificata dalla ripresa del testo epigrafico in tempi seriori. Il ductus dello sgraffio è, nella stesura più antica, di un tratto leggerissimo, talora appena percepibile solo a luce radente. L’analisi autoptica, non sempre facile per ripetute riprese e correzioni, ha prodotto un testo che, in ultima stesura, ricomposto su una stessa riga per l’impossibilità di una fedele trascrizione grafica, può essere così decriptato:

 

«1190/5  h(aec)  me fecit xp petri p(iscop)u e(t) q(uod) magi(s)t(e)r p(at)er paulu exCRyauyt b(asilicam) (dicatam) s(an)c(to) a(ntioch)o et m(art)irum s(anctae) ecclesyae † (christi)» evocato dal disegno del Cristo-toro sacrificale.

 

Nell’esame che segue si cercherà di ricostruire la genesi epigrafica, con riguardo anche agli errori e ai ripensamenti in cui incorse lo scrivano, e alle successive poche interpolazioni di terzi, che si innestano nei larghi spazi che scandiscono i termini, in una lingua latina appena contaminata dal volgare. L’iscrizione è introdotta dalla novità di un secco «1190/5», che fissa, nella prima e nella sottostante seconda riga,[17] l’esatta cronologia di compimento della fabbrica. Il signum particolarissimo del numero 5 è censito nel Dizionario delle abbreviature del Cappelli tra quelli in uso tra fine del xii e il xiii secolo, e basterebbe da solo a convalidare, ove vi fossero dubbi, l’autenticità e l’attendibilità dell’intera iscrizione.[18] È questa la prima  datazione che documenta l’uso della numerazione araba nelle epigrafi commemorative del Medioevo in Sardegna.[19] Sembrerebbe anzi essere questa, al momento, la più antica attestazione della numerazione araba nell’isola. L’adozione del nuovo sistema documenta l’anticipazione dello scrivano, pisano per formazione culturale, sul nuovo sistema di calcolo, comunemente messo in relazione con il Liber Abbaci scritto sette anni dopo quel 1195 da Leonardo Pisano detto “il Fibonacci”, di Pisa, città portale della diffusione del sistema numerico decimale indo-arabico in Europa.[20] L’appunto cronologico merita di essere ricordato anche per essere il solo, almeno in Sardegna, a commemorare esplicitamente un determinato arco temporale di sei anni, segnato da due precisi termini ad quem: l’inizio e il termine dei lavori.[21]

Dettaglio della datatio e del nome del vescovo bisarchiense Pietro.

 

Nello spazio seguente, ancora tra prima e seconda riga, si riscontra una lettera «h» minuscola retroversa, preceduta da un breve segno di troncamento, graficamente simile ad un apostrofo. Il signum, nel suo insieme, è censito al dritto dal Cappelli, è assegnato ad un tempo tra  l’viii e il xiii secolo, e decriptato nell’accusativo neutro, plurale di hoc, «h(aec)» = queste cose.[22] Il riferimento è all’opera architettonica, la facciata e il campanile, allusa nel cennato stipite del disegno della croce. A seguire, adesso nella prima linea, è la terza persona singolare del perfetto di facio, «fecit» = fece, in carattere minuscolo. Nella riga sottostante, il Signum Christi definito da una combinazione croce-chrismon introduce, in una alternanza di caratteri maiuscoli e minuscoli, tra i quali una «e» dal tratto onciale, il genitivo dell’antroponimo «Petri» = di Pietro, che dichiara l’appartenenza del Signum a Pietro.[23] Si registra qui un primo errore in cui è incorso lo scrivano, che scrive «PIetri» appoggiandosi al «P» del chrismon inteso come una «P» dell’alfabeto latino (in realtà è la «P» del greco xpistos), per poi risolvere, in un secondo passaggio, in «Petri», con l’integrazione di un occhiello sulla lettera «I» di «PIetri». Traccia quindi una «u» nana, gotica, nella seconda riga, in asse sulla «r» di«PIetri», e dichiara, con una abbreviatura per contrazione pura, il titolo ecclesiastico volgarizzato di «P(iscop)u», attribuendo, di fatto, alla stessa «P» una doppia valenza: iniziale di «Petri» e di «P(iscop)u».[24] Si apprende così il nome del vescovo che in quell’anno, evidentemente, sedeva sulla cattedra di Bisarcio.

Dettaglio del nome del Magister Paulu.

 

Il secondo periodo, raccordato al precedente da una gotica «e» = et, ha inizio nella prima linea, con una lettera «Q» maiuscola, figurata con un occhio romboidale, per la difficoltà dell’estensore di tracciare curvilinee sulla dura pietra. Complementare a questa, sulla destra è un primo segno di troncamento simile ad un “2”. Il grafema, nella sua interezza anche questo censito dal Cappelli, è assegnato al xii secolo e decriptato in «Q(uod)» = per queste.[25] Una sequela di caratteri maiuscoli e minuscolo, sovrastati da un’ampia curvilinea, segna l’abbreviazione per contrazione mista del termine magi(s)t(e)r = maestro, ad indicare la qualifica del soggetto progettista ed esecutore, impegnato nel cantiere di Bisarcio.[26]

 

Dettaglio del termine che attesta l’ampliamento della cattedrale intitolata a S. Antioco.

 

Il successivo verbo «excryauyt», espresso in un’ampia varietà di caratteri corsivi, gotici e onciali di corpo differente, distribuiti non a caso tra prima e seconda riga, è da intendersi come corruzione di excreavit, terza persona singolare del perfetto di excrio, quindi, ampliò. Il termine è interessante per più ragioni: in primo luogo, perché costituisce una novità nel lessico delle voci verbali, non solo nell’epigrafia del Medioevo sardo ma anche nei documenti di epoca giudicale, che definiscono un qualsiasi intervento edilizio su un qualcosa di ecclesiastico o di civile in Sardegna.[27] Il discostamento dalla tradizione linguistica sarebbe da ricercarsi nella particolarità dei lavori svolti a Bisarcio, per i quali non si costruisce ex novo ma si ingrandisce un tempio, anteponendo al preesistente un nuovo corpo di fabbrica e un campanile al fianco meridionale.

Sotto profilo strettamente lessicale e formale, si osserva una «u» minuscola con valore di «v», secondo un principio inverso alla norma delle epigrafi della classicità romana e l’accostamento di maiuscole e minuscole, su cui prevalgono le due sormontanti «cr», in prossimità dell’intersezione delle travi della croce. Non sembrerebbe un caso che la scelta sia caduta proprio su queste due lettere, che suonano come la traslazione in forma latina del più comune dei monogrammi cristologici, il chrismon greco (xp = Christòs), forse a significare l’ispirazione divina che ha guidato la mano del costruttore in un’opera concepita, come questa stessa epigrafe, a lode e gloria del suo nome. L’impresa è agevolata e per certi versi obbligata dalla necessità di incastrare i caratteri seguenti sul disegno dei conci del graffito della chiesa qui intersecato, con conseguenti nuove soluzioni grafiche altrettanto originali, di cui si dirà più avanti. L’ipotesi trova il suo riscontro nella correzione, altrimenti ingiustificabile, della minuscola corsiva «c» con la «C» maiuscola e sormontante come la «R», che richiama, ma in forme molto meno eleganti, la «R» onciale della sottostante epigrafe consacratoria (post 1195).

Nella riga inferiore, la terza, una minuscola «b» è abbreviatura per troncamento di «b(asilicam)» = cattedrale. Il tratto qui è fortemente marcato al punto che si ipotizza un ricalco post 1503, quando, con la soppressione della diocesi ad opera di Giulio ii, la chiesa perde quel titolo, recuperato, solo dopo tre secoli di reiterate istanze, con la ricostituzione della diocesi autonoma nel 1803.[28] Nella seconda riga una «c» minuscola è complementare ad un segno grafico, nel quale una «S» è trapassata da un’asta obliqua, con un breve arco all’apice come un’ancora, simile, ma non identica, a quelle riscontrate nell’epigrafe di S. Auteddu (xiii-xiv sec.), nella chiesa di Orria Pizzinna di Chiaramonti, ad indicare, per convenzione, il termine “s(an)c(t)o”.[29] Il nome del patrono della chiesa è invece espresso, nella stessa riga, da un «ao» con trattino superiore per l’abbreviatura per contrazione pura di «a(ntioch)o», al dativo per un sottinteso dicatam = dedicata, riferito alla cattedrale. Interessante osservare come lo scrivano si appoggi alle linee dell’arco gotico simbolo dell’archeggiatura architettonica per indicare una sorprendente «a» maiuscola.

Si registra, nel tratto seguente, una grande incertezza dall’autore dell’iscrizione. È probabile che lo stesso abbia tentato di scrivere per esteso il genitivo plurale «martirum» = dei martiri ma, dopo un tentativo infruttuoso per una naturale frattura della pietra che ne compromette la lettura, risolve con la successiva abbreviatura per contrazione mista «mirum» ancora per «m(art)irum». Il termine è introdotto da una «m» dal sapore vagamente onciale e chiuso da un  segno simile ad un 2 tagliato in coda per il «rum» finale;[30] in alto una breve linea obliqua ribadisce il troncamento. Tra i termini «a(ntioch)o» e «m(art)irum» si registra ancora un segno simile ad un 2 privo di taglio in coda, stavolta a significare un «et», per sottolineare lo stato distinto di santo e di martire, del patrono della chiesa.[31]

Dettaglio del termine Ecclesiae †.

 

Lo spazio perduto per l’incidente grafico è recuperato in un vuoto sottostante, per il quale si  introduce una quarta riga di supporto, al fine di non guastare oltremodo l’impianto cruciforme dell’iscrizione già impostato. Qui una «S» tagliata da un tratto obliquo di troncamento e segnata da un secondo trattino ad essa esterno con pari significato è da intendersi per «S(anctæ)» = della Santa. Per contenere lo spazio l’estensore è obbligato a contrarre il genitivo «ecclesyæ» = della Chiesa, stringendo le prime cinque lettere maiuscole da più nessi: due asticine interne ad una stessa asta curva di una «e» onciale (una volge all’alto, l’altra al basso) indicano le due «e»; la «c» è stretta in un nesso con la «l», mentre la seconda «c» è ruotata di oltre 90 gradi e si sovrappone al blocco «ecle».[32] Seguono le minuscole «s» e «y», e il dittongo «æ» con le due corsive legate. Chiude l’iscrizione il segno «†» per Christi = di Cristo, evocato, di nuovo nella seconda riga, dal disegno del Cristo-toro sacrificale trafitto da una lancia, dopo il termine «m(art)irum».[33] Al piede della croce l’orma del plantare di un sandalo di un pellegrino sigla in maniera anonima l’epigrafe.

Dettaglio del termine m(artir)um e del disegno del Cristo/toro immolato.

 

Alla luce di questa esegesi, l’epigrafe nella prima stesura può intendersi come «1190/5  h(aec) fecit xp petri p(iscop)u e(t) q(uod) magi(s)t(e)r exCRyauyt b(asilicam) (dicatam) s(an)c(to) a(ntioch)o et m(art)irum s(anctae) ecclesyae  † (christi)». “Nel periodo 1190/95 fece queste cose il vescovo Pietro e per queste il maestro ampliò la cattedrale di Antioco santo e dei martiri della Santa Chiesa di Cristo”. Dallo spiovente sinistro della cuspide, nella sua triangolarità, seppur non equilatera, forse evocativa della SS. Trinità,[34] si dipartono alcuni raggi di luce che danno rilievo alla parola «magi(s)t(e)r», credibilmente ad indicare quanto maestro Paolo sia stato illuminato dall’Alto nella progettazione dell’avancorpo della chiesa.

In un secondo momento, non esattamente quantificabile, una seconda mano, con tratto più gentile e calcato, innesta un «me» tra il «1190» e il «fecit» e, in una nuova riga graffita al di sopra della prima, tra i termini «magi(s)t(e)r» e «excryauyt», fissa l’antroponimo «Paulu» in un corsivo gotico, bene indicato da una grande freccia sottostante. I due disegni, la croce e soprattutto il toro, ma anche la finezza delle due lettere sormontanti rivelano una capacità artistica, un estro e una cultura non comune, per i quali non si esclude che l’autore della singolarissima epigrafe, siglata al piede della croce dalla cennata orma anonima, possa invece essere lo stesso Magister Paulu sotto mentite spoglie. D’altra parte è difficile pensare ad un viandante sui generis, altrettanto estroso e motivato da salire su una scala, per lasciare memoria di un qualcosa di cui sarebbe stato solo testimone. Non un pellegrino, dunque, come tanti che si limitarono a tracciare solo un’orma a memoria del loro transitare a Bisarcio e in molte chiese romaniche sarde,[35] ma un assiduo frequentatore del cantiere che ben conosce l’anno di inizio e fine lavori, e il committente, come solo chi aveva lavorato nel cantiere avrebbe potuto sapere e, soprattutto, avere ragione di fissarli in una epigrafe unica e straordinaria per originalità grafica e ricchezza di contenuti.

Si deve presume che l’interpolazione di una terza mano abbia voluto sanare una attestazione carente, forse più per umiltà che per distrazione, del nome del Maestro, riconoscendo il giusto merito ad una personalità di prestigio, Paolo, artefice di un’opera senza confronti nel romanico in Sardegna. Agli stessi intendimenti dovrebbero ricondursi il monogramma «mp», inteso come le iniziali di Magister Paulu e un Signum Cristi seguito dal monogramma «pe» per P(etrus) E(piscopus), ben scolpite, come la punzonatura di un argentiere, in un tratto sottostante, quando ancora era viva la memoria del maestro e del vescovo. Alla stessa mano deve ricondursi il disegno di un dito posto su «paulu», evocativo, si crede, dell’ispirazione dello Spirito Santo, il «Dexterae Dei tu digitus» dell’inno Veni creator Spiritus, che ha segnato tutta la sua opera.[36]

Per singolarità della raggiera e del dito, unici per un maestro almeno in Sardegna, non si esclude che Paolo possa anche essere stato un sacerdote o un religioso, così come il pugliese maester e sacerdos Nicola attivo nella torre della cattedrale di Trani e nel Duomo di Bitonto e, secondo l’opinione di Aldo Sari, anche il ‘maester Alberto’ della fabbrica di San Giovanni di Viddalba.[37] L’ipotesi trova una prima conferma in una terza, inedita epigrafe, stavolta dedicatoria, opportunamente graffita su una sola riga,  ancora in caratteri corsivi, nel piedritto destro dell’arcata di accesso alla cappella, ad una altezza di 196 cm, al riparo da possibili contaminazioni dei pellegrini. Lo specchio epigrafico, di una dimensione di poco inferiore al concio che lo contiene (H cm 22 x L 53 cm),  esibisce otto lettere e tre segni propri della brachigrafia medievale: «p· pr  ctر cto». La prima «p» è seguita da un brevissimo trattino a metà del corpo della lettera, che acquista il valore di un punto, quindi di un troncamento del termine.[38] La seconda «p» è stretta in un nesso con una «r» e segnata da un tratto superiore, per il quale si realizza il monogramma «pr» = P(ate)r.[39] In una sorta di gioco grafico, il conclusivo binomio «ctر» «cto» dichiara una contrazione mista di due termini simili, che si caratterizzano per una «c» iniziale, una «t» interna e, nel primo caso, un segno convenzionale «ر» che spesso indica la sillaba finale «is»,[40] nel secondo una desinenza finale «o», che può essere un dativo singolare della seconda declinazione. Così intesa, l’epigrafe è decriptata in «p(aulus) p(ate)r c(is)t(erces)is c(ris)to», “Paolo Padre cistercense (dedica i lavori di ampliamento) a Cristo”. La stretta analogia grafica delle due «p p» con la «p» di «paulu», ma anche la corrispondenza e la complementarietà dei contenuti relativi alla stessa cappella, lasciano intendere, se non proprio una stessa mano, di certo uno stesso tempo, e lo stesso chiaro intendimento di rivelare la paternità dell’opera in un grande atto di umiltà e di piena dedizione a Cristo.

Epigrafe dedicatoria della cattedrale di Bisarcio a Cristo da parte di Magister Paulu (1195).

 

Monogrammi del M(agister) P(aulu) e del P(etrus) e(piscopus) (1195).

 

Una ulteriore conferma giunge dalla «p» di «paulu» dell’epigrafe commemorativa, che differisce dalle stesse dell’epigrafe dedicatoria per il doppio svolazzo sull’occhiello, pertinente, si ha ragione di credere, una seconda «p», stretta in un intimo nesso con la prima. Si produce in tal modo un quadro analogo a quello dell’epigrafe minore, nel quale, se la prima «p» evidentemente è di «paulu», la seconda ragionevolmente è di p(ater). La deduzione appare facile e scontata anche per il monogramma «pp» censito dal Cappelli come abbreviatura per troncamento del plurale Patres, in uso per un arco di tempo così ampio, che lo stesso autore ne tace gli estremi cronologici[41]. Questo a prescindere dalla possibilità realistica di una autonoma convalida, ove si intendesse la «p» tagliata in gamba da un tratto orizzontale, esito della convergenza su quello stesso punto dei sottostanti tratti della «t» di «magi(s)t(e)r» e della cuspide della freccia. Anche in questo caso di produrrebbe un segno convenzionale in uso tra xii e xv secolo, indicativo di «per» decriptabile in p(at)er[42].

Così integrata e rivisitata, l’iscrizione si svolge nella forma attuale: «1190/5 h(aec) me fecit xp petri p(iscop)u e(t) q(uod) magi(s)t(e)r p(at)er paulu exCRyauyt b(asilicam) (dicatam) s(an)c(to) a(ntioch)o et m(art)irum s(anctae) ecclesyae † (christi)». “Nel periodo 1190/95 mi fece queste cose il vescovo Pietro e per queste il maestro Padre Paolo ampliò la cattedrale di Antioco santo e dei martiri della Santa Chiesa di Cristo”.

La galilea portata a compimento dal monaco cistercense Magister Paulu tra il 1190 e il 1195

 

Il rinvenimento dell’epigrafe cruciforme fissa il nome di un nuovo maestro responsabile della fabbrica, il diciassettesimo riferito in testi epigrafici medievali in Sardegna,[43] l’unico certamente maestro e religioso, ma pone finalmente termine alla dibattuta vicenda critica sulla cronologia dell’opera, ma arricchisce dell’acquisizione del nome di un vescovo, Pietro II, sinora sconosciuto alla cronotassi dei vescovi di Bisarcio. Potrebbe essere lui il presule ipotizzato da Francesco Amadu, in rappresentanza della diocesi al Concilio Regionale di Ardara nel 1205 e da Damiano Filia dato certamente per defunto prima del 2015.[44] Successore sulla cattedra di Pietro I (1112-1127) e predecessore del genovese Pietro ii (1283-1289), oggi aggiornato in Pietro iii[45], di lui, con certezza, non si può al momento dire altro se non che, insieme al giudice di Torres, sia stato il committente della galilea e della torre campanaria dell’antica cattedrale.

Non priva di interesse è una quarta inedita breve epigrafe (H cm 16,5 x L 43 cm), graffita sulla parete a fronte della stessa cappella episcopale, nella quale si registra ancora un Signum Christi seguito dal nome «Josephj Sanna». Il signum «+» in questo caso è chiaramente svolto nella forma greca, «xri(st)ou», con la greca «p» corretta nella corrispondente latina «r» e le lettere finali «ou» tutte a scalare sotto la «J» iniziale, con un superiore trattino obliquo di contrazione mista. La forma genitivale come per il precedente «Petri», dichiara l’appartenenza del «Signum «xri(st)ou» a certo «Josephj». Il titolo «P(iscop)j» è dato per contrazione pura del termine e indicato da una «P» costruita sulla «s» del suo nome e della «j» che prende forma dal prolungamento dell’asta della prima «n» di «Sanna», secondo un modo altalenante di scrivere su due righe, che riecheggia la genesi grafica del «Petri P(iscop)u». Si guadagna così l’identità di un secondo vescovo titolare, anche questo sconosciuto alla cronotassi del vescovi di Bisarcio. Nel breve spazio tra la «P» e la «j», sono quattro cifre ancora in caratteri arabi, dubbitativamente intese come «1216».[46] Se la cronologia fosse confermata, potrebbe trattarsi del vescovo che succede a questo Pietro. Per la reiterata adozione della numerazione araba, si crede che il «1190/5» epigrafico non costituisca, in ambito isolano, un hapax, ma un modus scribendi rivelatore di un allineamento culturale di Bisarcio con Pisa e l’Europa, tra xii e xiii secolo.

Probabile epigrafe commemorativa dell’inizio dell’episcopato del vescovo di Bisarcio Joseph Sanna (1216).

 

Pare certo che ancora nel 1215 un vescovo bisarcense, forse Pietro, abbia rappresentato la Diocesi al iv Concilio Lateranense.[47] Nello stesso anno Damiano Filia registra una discussa vacanza della sede vescovile di Bisarcio,[48] forse coperta da Admalberto (o Alberto) arcivescovo di Torres nel ruolo di amministratore apostolico.[49] Nell’ipotesi di una mancata vacanza – per la persistenza in Sardegna del sistema di calcolo del tempo in base all’indizione greca o bizantina o costantinopolitana, che ha il suo capodanno il 1 settembre – si dovrebbe intendere quell’11 novembre 1215 dell’apertura del concilio da parte di papa Innocenzo iii, corrispondente al 1216. Su questo assunto, si avrebbe ragione di credere che Giuseppe Sanna si sia insediato in cattedra nel terzo mese del 1216 bizantino (l’undicesimo del 1215 stile moderno o «della Circoncisione»), e l’epigrafe recante solo il suo nome e l’anno assuma un valore esclusivamente commemorativo dell’esordio del suo episcopato. Il disegno del graffito ritrovato, sufficientemente dettagliato del prospetto di facciata, già concluso nel 1195, esclude, infatti, un qualsiasi ruolo di Giuseppe Sanna nella fabbrica di Bisarcio.

 

[1] «mclxiiii joh(anne)s ep(iscopu)s finem (h)abuit», cfr. G.G. Cau, L’epigrafe consacratoria di Sant’Antioco di Bisarcio (1164) [di] Giovanni Thelle vescovo”, «Sardegna Antica», a. xiv, n. 38, Nuoro, II sem. 2010, pp. 19-20.

[2] Per una più completa  bibliografia sulle architetture della chiesa di Bisarcio si rimanda a R. Coroneo, La cattedrale romanica, in R. Coroneo, S. Columbu, Sant’Antioco di Bisarcio (Ozieri): la cattedrale romanica e i materiali costruttivi, «ArcheoArte: rivista elettronica di archeologia e di arte» 2010, I, pp. 150-156, (documento pdf,  http://ojs.unica.it/index.php/archeoarte/article/view/33/19 , consultato il 7 settembre 2016).

[3] «consecratum est hoc altare ad honore(m) s(an)c(t)i iacobi ap(osto)li s(an)c(t)i tome archipresule et martire s(an)c(t)i martini ep(iscop)i et c(on)f(e)s(sori)s s(an)c(ta)e cecili(a)e virg(in)i(s)».

[4] Ringrazio Gian Domenico Fenu e Mario Muredda per l’assistenza tecnica prestata nel rilievo dell’iscrizione.

[5] Uno strutturato disegno della scala in foggia di albero è stato censito nella chiesa di Orria Pizzinna; per questo e per altri esempi, cfr. G. Piras, Le epigrafi, i segni lapidari e i graffiti, in Villaggi e monasteri. Orria Pithinna. La chiesa, il villaggio, il monastero, a cura di M. Milanese, Firenze 2012,  pp. 79, 87 fig. 1 n. 21.

[6] M. Feullet, Lessico dei simboli cristiani, Roma 2006, p. 102, v. Scala, 1.2.

[7] G. Piras, Le epigrafi, i segni lapidari e i graffiti, cit., p. 121.

[8]  M. Feullet, Lessico dei simboli cristiani, cit,  p. 103, v. Scalinata.

[9] Un graffito della scala è nella parete S e due sulla parete N dell’aula capitolare; due nella parete N e uno in quella S della cappella; tre, infine, nella parete S della terza stanza.

[10] Ringrazio lo studioso Giacobbe Manca per aver evidenziata questa corrispondenza.

[11] Codex Diplomaticus Sardiniae, cdt, xiii, 58, 63, 64. F. Amadu, La Diocesi Medievale di Bisarcio, Cagliari 1963, p. 59. D. Filia, La Sardegna cristiana, Sassari 1913, vol. ii, p. 89.

[12] M. Feullet, Lessico dei simboli cristiani, cit., p. 65, v. Luce.

[13] Lexicon abbreviaturarum. Dizionario di abbreviature latine ed italiane, a cura di A. Cappelli, Milano 1990, p. xxxi. Il segno si riscontra, in forme grafiche differenti, nell’epigrafe di consacrazione dell’antica chiesa di S. Lucia del vescovo bisarcense Donato documentato nel 1371 F. Amadu, La Diocesi medioevale di Bisarcio, cit., pp. 107-108). Questa, già decriptata in «p(e)rf(eci)t d(on)a(t)vs au(gustinianus) t(um)» (cfr. G.G.Cau, In una iscrizione del trecento, la fondazione della chiesa  di S. Lucia ad Ozieri. L’epigrafe di Donato vescovo di Bisarcio, «Voce del Logudoro» cit.), è oggi aggiornata in «p(e)rf(eci)t d(on)a(t)vs au(gustinianus) f(ra)ter », per il riconoscimento del monogramma  «ft»,  con la «f» stretta in un nesso con una « t» tagliata in asta = «ter». 

[14] L’iscrizione (H 21 x L 19 cm) è a 325 cm dallo spigolo dell’intradosso dell’arco di ingresso, ad un’altezza di 206 cm.  Il termine ‘monastero’ richiama quel Novum monasterium utilizzato sin dalle origini della fondazione dell’abbazia madre di Cistercium, fondata nel 1098 da Roberto di Molesmes, cfr. J. Marilier, Le vocable “Novum monasterium” «Cistercenser Chronik», 1950, pp. 81-84.

[15] F.C. Casula, Dizionario Storico Sardo, Sassari 2001, pp. 719-720, v. Gonario ii, re di Torres. Per la regia committenza, cfr. G.G. Cau, «Fabricata est haec ecclesia et consacrata sub tempore iudicis…». Il ritratto litico del giudice committente in talune chiese dell’Arborea e di Torres, tra xii e xiv secoli, «Theologica & Historica Annali della Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna», (2013) n. xxiii, pp. 289-291.

[16] Una protome bovina, allusiva allo stesso Cristo immolato, è nella mensola di imposta degli archi della bifora destra della facciata del S. Antioco di Bisarcio.

[17] In questa analisi la numerazione delle righe non tiene conto di quella posticcia, che supera di una riga le quattro della prima stesura. Si consideri quindi prima riga quella che ha inizio con la cronologia «1190/5», piuttosto che quella superiore che dichiara il nome di «paulu».

[18] Lexicon abbreviaturarum… , cit., p. 425.

[19] Per un censimento delle epigrafi medievali in Sardegna, cfr. A. Pistuddi, Architetti e muratori nell’età giudicale in Sardegna. Fonti d’archivio ed evidenze monumentali fra xi e il xiv secolo, tesi di dottorato, Università degli Studi di Cagliari, Dipartimento di Studi storici, geografici e artistici, Settore Scientifico Disciplinare L-ART/1. 

[20] Lexicon abbreviaturarum… cit., p. lv.

[21] Per il vero, un arco di tempo che si svolge durante l’episcopato di Giovanni Thelle fissa genericamente i tempi della costruzione del principale corpo di fabbrica della stessa chiesa di Bisarcio. In questo caso, tuttavia, si dà per certo solo il termine di chiusura del cantiere (1164), cfr.  cfr. G.G. Cau, L’epigrafe consacratoria…, cit.,  pp. 19-20.

[22] Lexicon abbreviaturarum…, cit., p. 156.

[23] La croce-chrismon è attestata a Bisarcio altre due volte in un inedito graffito dell’Approdo di Antioco nell’isola di Sulci, nell’aula capitolare a sinistra della cappa del caminetto. È nella banderuola di poppa della barca ed è sostenuta da un inedito S. Antioco Cristoforo, assiso a prua.

[24] La voce Piscopu è attestata nel Condaghe di San Nicola di Trullas  per una permuta, di cui è testimone «isso piscopu de Gisarclu donnu Iuvanne Thelle» il vescovo predecessore di questo Pietro, sulla cattedra di Bisarcio (cfr. csnt, xi, xiii secolo, cap. 294).

[25] Lexicon abbreviaturarum… cit., p. 302.

[26] Per un approfondimento sulla qualifica di Magister nelle epigrafi medievali e sulle sue competenze in Sardegna, si rimanda allo studio di A. Pistuddi, Architetti e muratori…, cit., pp. 218-226.

[27] Per un catalogo completo delle voci documentali ed epigrafiche in uso in epoca giudicale nell’isola, ibi, pp. 99-129.

[28] R. Turtas, Storia della Chiesa in Sardegna dalle origini al Duemila, Roma 1999, pp. 328, 526.

[29] G. Piras, Le epigrafi, i segni lapidari e i graffiti, cit.,  p. 62, fig. 9.

[30] Lexicon abbreviaturarum… cit., pp. xxiv, xxvii-xxviii.

[31] Ibi, p. 408. La congiunzione in questo caso è differente da quella della «e» gotica che precede  il «Q(uod)» iniziale, al solo fine evitare fraintendimenti, essendo lo stesso «Q(uod)» composto da «Q» e dallo stesso segno grafico simile al 2. 

[32] Il legamento con nesso non è una novità tra i graffiti di Bisarcio. Oltre agli esempi già portati, nella stanza precedente alla cappella, nella parete N, al piede di una inedita Crocifissione con la Vergine e Giovanni e lo stendardo della risurrezione, è una breve epigrafe dedicatoria e «deo» = a Dio, con la «e» inscritta e stretta in un nesso alla  «d».

[33] L. Charbonneau-Lassay, Il bestiario del Cristo, vol. I, Roma 1995, pp. 123-125.

[34] M. Feullet, Lessico dei simboli cristiani, cit., p. 121, v. Triangolo.

[35] G. Dore, Sulle “Orme” dei Pellegrini. Testimonianze dei percorsi penitenziali medievali nell’Isola, Cagliari 2001.

[36] «A partire dal ix s., probabile periodo di composizione ad opera di un autore ignoto, questa preghiera della Chiesa latina identificava il dito della mano di Dio con lo Spirito santo», cfr. L. D. Chrupcała, Il dito di Dio (Lc 11,20) nell’esegesi moderna e patristica, il saggio è disponibile sul web al seguente indirizzo: http://www.christusrex.org/www1/ofm/sbf/Books/LA44/44083LDC.pdf  ([documento pdf] consultato il 10 marzo 2016. Lo Spirito Santo-dito della mano di Dio ha un riscontro, nel romanico isolano, nel rilievo del Symbolum Nicænum Costantinopolitanum, della base della parasta sinistra della chiesa di S. Lussorio di Fordongianus (1110-1120), cfr. G.G. Cau, «Precari cepit et Scripturis Divinis animum impendere». La Passio del San Luxorio gran caballero  nel ciclo scultoreo del Santuario di Fordongianus, in Theologica & Historica, Annali della Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna, xxvi (2016), pp. 209-251.  

[37] A. Sari, Nuove testimonianze architettoniche per la conoscenza del medioevo in Sardegna, Cagliari 1981, p. 67-71.

[38] Lexicon abbreviaturarum… cit., p. xii.

[39] Ibi, p. xxi.

[40] Ibi, p. xii.

[41] Ibi, p. 283.

[42] Ibi, p. 257.

[43] A. Pistuddi, Architetti e muratori…, cit., pp. 83- 92.

[44] F. Amadu, La Diocesi medioevale di Bisarcio, cit., pp. 51, 53. D. Filia, La Sardegna cristana, vol. 2, cit., p. 67.

[45] Credibilmente apparterrebbe a Pietro iii, al secolo Pietro Remenaro (cfr. F. Amadu, La Diocesi medioevale di Bisarcio, cit., pp. 75-81), l’inedito monogramma di quattro lettere, «epr», strette in un nesso = Ep(iscopus) P(etrus) R(emenaro), che emerge dall’antica opportuna interpolazione di un chrismon inciso su un tratto del paramento murario opportunamente levigato, a sinistra della monofora della cappella della galilea. La singolare soluzione grafica sarebbe giustificata dall’intenzione di significare in senso metaforico una totale appartenenza a Cristo, «uno in Cristo» (Gal 3, 28), al punto di costituire un solo corpo, in  questo caso anche grafico, con Lui. Un arco che taglia le lettere potrebbe alludere all’arco di tempo del suo pontificato, in maniera simile a quello espresso nell’epigrafe consacratoria di Giovanni Thelle.

[46] Il dubbio riguarda la lettura della seconda cifra che potrebbe essere un 2 o un 3. Graficamente essa è simile ad una “y” ed è censita dal Cappelli come un 2, in uso nel xiii secolo (Lexicon abbreviaturarum…, cit., p. 423) o un 3 documentato alla fine del xii secolo (ibi, 424). Si privilegia la prima lettura perché in linea con l’attestazione di quella grafia nel xiii secolo ma anche perché la seconda produrrebbe un inaccettabile «1316», quando già siede sulla cattedra Bisarcio Bernardo Carboni (1303-1328), cfr. R. Turtas, Storia della Chiesa …, cit., p. 875.

[47] Ibi,  p. 877.

[48] D. Filia, La Sardegna cristana, cit., p. 67.

[49] F. Amadu, La Diocesi medioevale di Bisarcio, cit., p. 53.

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