di Gian Gabriele Cau

In un saggio sulla Chiesa cattedrale dell’antica Bisarcio, apparso in un numero del  “Bullettino Archeologico Sardo” (n. V-VI, 1859-1860) Giovanni Spano prendeva nota di “una porticina interna in fondo alla navata sinistra la quale conduceva alla canonica, nella cui parte superiore si vedono le traccie d’una pittura a fresco, come anche l’aveva – prosegue lo studioso –  l’ancona della porta maggiore alla quale hanno dato il bianco, che sarebbesi conservata, perché era ben difeso dall’acqua e dalle intemperie per mezzo del vestibolo”. 

La curiosità innescata dalle osservazioni del canonico di Ploaghe ha suggerito un sopralluogo nella speranza di rinvenire qualche frammento dei dipinti murali, i soli su una parete esterna in un tempio isolano. Nella lunetta della porta dell’ingresso principale non resta, in un interstizio sotto la mensola di imposta dell’arco sinistra, che qualche residuo di una cornicetta  ad affresco, di un tono giallo, il colore che nella cultura cristiana designa la Divinità Suprema. Ampie macchie sui conci di trachite basaltica segnano il perimetro degli ultimi intonaci, fotografati ancora nella primavera del 1984 (R. Serra, La Sardegna, 1984, tav. 117), qualche anno prima del loro abbattimento.

Nell’esame della parete esterna della lunetta dell’ingresso del prospetto Nord  (oggi accecato) si sono rilevati pochi ma chiari frammenti di affresco e residue di tracce di colore. L’elaborazione elettronica di quelle immagini, riassumibile nella maggiore saturazione e contrasto di labili, talvolta evanescenti cromie, ha posto in evidenza quel poco che resta di una inedita Crocifissione, caratterizzata da un monumentale Crocifisso del XIV secolo, di derivazione umbro-toscana –  giottesca in particolare – di straordinario significato storico, per quanto oggi di non facile lettura. L’unico attestato in Sardegna.

Al centro della chiave dell’arco della lunetta esposta a Settentrione si riscontra un foro quadrato e altri due occlusi ai lati delle mensole di imposta dello stesso arco. In questi avrebbe trovato sostegno una copertura a doppio spiovente, una sorta di cappelletta forse in legno e laterizi, preposta al riparo dell’affresco dalle intemperie. Dal mancato riscontro degli stessi punti di innesto delle travi sull’arco dell’ingresso principale ne consegue un primo dato cronologico: l’affresco era protetto dalla galilea e quindi, con l’altro coevo, successivo alla costruzione di questa (1170-1190 circa). 

 

 

Restituzione grafica dell'affresco della Crocifissione di Bisarcio (XIV sec.)

 

 La Crocifissione è inclusa in una semplice cornice di un tono rosso, il colore della Passione e dell’Amore Supremo, che con discontinuità segna, oggi, il profilo interno della lunetta, con tratti di maggiore contrasto e visibilità nella sezione superiore destra del riguardante. Nella parte mediana sottostante la linea rossa, si rileva il disegno di un parallelepipedo trasversale, ad essa sovrapposto, nel quale è facile distinguere, per la nitida evidenza dei segni delle venature, una piccola trave di un legno chiaro (cm 7 x 20), che si staglia su di un cupo cielo azzurro. Il crollo di parte dell’intonaco non inficia la possibilità di cogliere il segno prospettico, dal basso verso l’alto e da destra verso sinistra, e riconoscervi la cimasa di una croce in origine caratterizzata – si ha ragione di credere – da dodici bracci. La caduta del colore nelle aree in ombra della travetta rivela lo stesso tono delle aree illuminate, scoprendo il limite di un artefice poco avvezzo alla tecnica “a fresco” e riverso nel ritocco a secco.

 

Dettaglio della sezione apicale della croce

 

Del patibolo si intravedono solo poche tracce nel tratto compreso tra la sezione apicale e l’intersezione della traversa. Tanto basta per sostenere che fosse dello stesso tono del legno superiore e appena più stretto del tratto sottostante la stessa traversa. All’estremità di questa si colloca la porzione di una travetta longitudinale non dissimile, in origine, per dimensione e per l’eguale venatura del legno, dalla cimasa ma in contrasto per la prospettiva, stavolta dal basso verso l’alto e da destra a sinistra, ricalcante lo stesso errore in cui incorse lo stesso Cimabue nell’affresco della Crocifissione della Chiesa Superiore di S. Francesco di Assisi.

 

 

 

Per un ovvio principio di simmetria, ma anche per la persistenza di impercepibili tracce cromatiche, si ha certezza che una eguale travetta limitasse l’estremità opposta. Tra queste era il corpo della traversa, credibilmente dello stesso tono del legno, listato da una spessa cornice rossa. Con maggiore attenzione si rileva in quest’ultima una breve inserzione di un tono differente, un incarnato, nel quale si riconosce un tratto del braccio sinistro del Crocifisso. La lunghezza della lista rossa che nasce dalla perpendicolare della mediana della cimasa sulla traversa, comporta, necessariamente, che il capo del Nazzareno, del quale si intravede appena l’alone giallo del nimbo, fosse fortemente reclinato sulla sua destra.  Il  modello che emerge dalla sintesi di queste precise coordinate (del braccio e della testa),  riecheggia il celeberrimo Crocifisso della chiesa di S. Maria Novella in Firenze, datato tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo. In questo, con  una svolta radicale rispetto alla serie duecentesca di crocifissi agonizzanti, Giotto dipinge un Cristo che, appena morto, crolla sotto il peso del suo stesso corpo. La tensione delle braccia stirate nella grave trazione come in una sorta di “Y” aperta, rimanda al Crocifisso della Croce astile n. 74 della Galleria Nazionale di Perugia, assegnata ad un seguace del giovane e insigne maestro toscano, convenzionalmente noto come  “Maestro della Croce di Gubbio”, attivo tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo.

L’ipotesi di una relazione più prossima con questo artista o con un suo allievo, è maggiormente tentante, se si osserva come il solco degli addominali tangente l’ombelico del Crocifisso perugino delinei una singolare lettera “P”, identica a quella dipinta nella Crocifissione di Tonara dall’omonimo Maestro barbaricino, il cui debito con il Maestro di Ozieri, attivo nella seconda metà del sec. XVI, nella stessa diocesi bisarcense ove si trova l’affresco, è provato (G.G.Cau, in “VdL”, 29 maggio 2005, p. 3).

 

Dettaglio del manto sul capo della Vergine

 

Nella sezione inferiore della lunetta la pietra è nuda trachite basaltica e solo un tratto verticale e  brevissimo, ma per questo non meno importante, della cornice rossa dello sportello destro della croce. Nessuna testimonianza del rimanente lungo segmento del patibolo e del piede. Sulla sinistra sono flebili tracce cromatiche, appena sufficienti per riconoscervi frammenti del manto di un bizzantineggiante rosso brunito che copre il capo della Vergine la quale, credibilmente, con il S. Giovanni evangelista alla destra,  piangeva un Crocifisso di cui si è persa ogni ulteriore traccia. 

Nella cimasa e nelle travette estreme della traversa non si rileva alcuna delle iconografie che accomunano i crocifissi dipinti su tavola tra XII-XIV secolo dai maggiori maestri umbri e toscani, ma si riscontrano, in questo dettaglio, talune tangenze con l’affresco della Crocifissione della chiesa di S. Pietro di Sorpe (Spagna), oggi al Museo Nazionale d’arte di Catalogna a Barcellona, datato alla prima metà del XII secolo.

Tra i più probabili committenti dell’opera si evidenziano due minori francescani, vescovi di Bisarcio: il greco Giovanni da Termopili (1349 al 1350) e lo spagnolo Francesco da Castiglione (1350-1366)  (F. Amadu, La Diocesi medioevale di Bisarcio, 1963, pp. 94-95; 105-107), il cui episcopato e la cui cultura (si ricorda che un Crocifisso simile, secondo tradizione, parlò al Poverello di Assisi) coincidono con il dato cronologico proposto.

In ambito sardo, l’unico raffronto possibile, per quanto distante, è con la Crocifissione del registro mediano del semicilindro della SS. Trinità di Saccargia, attribuita ad un maestro tosco-laziale della seconda metà del XII secolo. La croce è qui caratterizzata da una trasversale bassa appena debordante dal profilo del patibolo cui si contrappone al colmo una cimasa, ma è privo dei riquadri e degli sportelli laterali, per quanto vi si riscontri in tutta l’estensione del Sacro Legno lo stesso motivo a losanghe degli sportelli di talune croci del Cimabue e di Giunta Pisano. Nell’insieme il Crocifisso di Codrongianus sembra anticipare talune peculiarità di quello più monumentale, elaborato dai maestri toscani e umbri, rivoluzionato da Giotto ed esportato a Bisarcio  a metà del XIV secolo da un anonimo artefice in tutto dipendente da quell’ambito culturale. 

Ulteriore prova della diffusione di modelli riconducibili ad un’area culturale italiana, in un’epoca non ancora contaminata dall’imposizione di schemi catalano-aragonesi sembrerebbe derivare, per fonte archivistica, ancora una volta dalla stessa diocesi bisarchiense. Nell’inventario redatto in occasione della visita pastorale del vescovo di Alghero e Unioni Durante dei Duranti ad Ozieri nel 1539 (Arch. Diocesano di Alghero, Registro delle visite pastorali 1539-1550, f. 22v), nella parrocchiale di S. Maria si registra un altare con una inedita, grande croce di legno nella quale è dipinto a pennello il Crocifisso (“un altar ab una creu gran de fusta j hunt esta pintat de pinsell lo Crucifici”).

Il sospetto che possa trattarsi di un crocifisso ligneo, policromo a tutto tondo, è fugato dal censimento di un secondo altare del SS. Crocifisso nel coro della stessa chiesa, sotto il patronato di “mossen Barcelo” scrivano dell’incontrada, meglio definito nella successiva visita del 1549 come simulacro (“un crucifici de bulto”,  ibidem, f. 128r). Si ha motivo di ritenere che in quest’ultimo – lo si afferma qui per la prima volta – possa riconoscersi il cinquecentesco Crocifisso gotico doloroso oggi nella chiesa di S. Lucia di Ozieri, a torto ritenuto proveniente da Bisarcio, dove, per contro, nelle stesse visite pastorali non è registrato alcun altare sotto quel titolo. Se si accettasse la lettura proposta, oggi supportata dalla certa identificazione dell’affresco di Bisarcio, sarebbe quella di S. Maria, censita nel 1539, la prima croce in tavola dipinta di scuola umbro-toscana documentata in Sardegna.

Il saggio è pubblicato in "Voce del Logudoro", Ozieri 10 settembre 2006, p. 3