Premio OzieriPremio Ozieri di Letteratura Sarda 

Nella chiesa di San Sebastiano una copia di una tela di Guido Reni

Il San Sebastiano del miracolo

 di Gian Gabriele Cau

 

 Tra i cento documenti dell’archivio diocesano, tutti meritevoli di grande attenzione, raccolti dal can. Francesco Amadu   ve n’è uno che riporta alla memoria un episodio miracoloso verificatosi ad Ozieri, in concomitanza della peste del 1652. La cronaca di quei giorni nefasti,  tra i peggiori della storia ozierese, è narrata in un altro preziosissimo documento citato nel 1855 nel “Bullettino Archeologico Sardo” dal can. Giovanni Spano, che lo ricevette da una nobile famiglia ozierese e ne fece dono all’Archivio Capitolare della Cattedrale, dove ancora oggi si conserva.

Rispetto ad altri centri maggiormente colpiti, la villa di Ozieri registrò solo, si fa per dire, circa settantasette morti. Per terrore del contagio del terribile morbo della “morte nera” molti cadaveri furono abbandonati per le strade, esposti alle ingiurie dei cani randagi. Mossi da sincera carità cristiana i canonici e i beneficiati della Collegiata si offrirono per scavare con le proprie mani le fosse e dare degna sepoltura alle salme profanate. Per le cure ai malati e far fronte alle necessità del momento, gli stessi sacerdoti e alcuni nobili ozieresi, tra i quali anche un certo Pietro Spanu, il 13 dicembre non esitarono a contrarre un prestito di trecento lire con il nobile ozierese Nicola Restarone. Una presa di coraggio da porre certamente in relazione con l’evento della miracolosa trasudazione di un quadro di San Sebastiano registrato da ben tre notai, Francesco Apila, Callisto Todde e Pietro Spanu, appena sei giorni prima nella Collegiata di Santa Maria.

Il mattino del 7 dicembre, infatti, alle dieci e trenta del mattino, mentre il venerabile beneficiato Gerolamo Cau officiava la messa presso l’altare maggiore, la tela del San Sebastiano donata per devozione da Pietro Spanu (forse lo stesso notaio verbalizzante e lo stesso tra i garanti del prestito delle trecento lire) cominciò a trasudare «butones de suore in su pettus». Un evento straordinario che fu interpretato come un diretto intervento del santo taumaturgico.

In un inventario redatto nel 1918 la tela compare ancora nella Cattedrale, nella cappella di San Filippo Neri “in cornu epistulae”, cioè nella controfacciata. Strategicamente il santo martire, che in vita era stato un miliziano dell’imperatore di Roma Diocleziano, stavolta si ritrova, forse non a caso, a presidiare l’ingresso di quel tempio nel quale aveva manifestato tutta la sua benevolenza e potenza intercessoria.

  

L’iconografia del San Sebastiano, terzo compatrono di Roma dopo i santi Pietro e Paolo, è tra le più ricorrenti nella storia dell’arte italiana. Compare sia in scene narrative, sia in dipinti devozionali ed è invocato soprattutto come protettore contro la peste, spesso accanto ad altri santi taumaturgici quali Cosma e Damiano, e Rocco. Non a caso ai due fratelli medici, martirizzati dallo stesso Diocleziano, sul finire del Cinquecento sul colle dei Cappuccini era stata intitolata una chiesa e, sull’altare maggiore, una tela, certamente una tra le più rappresentative del Seicento - e non è questa una scoperta dello scrivente - in tutta la Sardegna. Uguale tributo di fede, nella stessa chiesa della B.V. del Rimedio, per l’antico simulacro di San Rocco attualmente in restauro e presto al Museo Diocesano.

Nell’alto Medioevo Sebastiano è raffigurato come un uomo in età avanzata, con la barba lunga e in mano la corona dei martiri. Solo a partire dal XV secolo fu privilegiata la rappresentazione del momento del suo primo martirio. Generalmente è effigiato come un giovane seminudo, legato a un albero (come nel quadro in esame) o a una colonna, colpito da frecce, talvolta con la sua armatura posta ai suoi piedi. Nella sopravvivenza del santo, per intervento angelico, alle ingiurie dei dardi che devastano, come i bubboni della peste, le carni, si riscopre la ragione di una devozione per contrastare il temibile male.

Il San Sebastiano del miracolo (cm 61 x 42,5) è libera trasposizione, in scala minore, del San Sebastiano (cm 128 x 98) realizzato nel 1615 circa da uno dei massimi rappresentanti del classicismo emiliano, Guido Reni (Bologna 1575-1642), attualmente presso la Pinacoteca Capitolina di Roma. Il Reni riprese più volte la fortunata iconografia nel corso della sua attività: del 1615-16  è la replica fedele del dipinto capitolino oggi conservata presso il Museo di Palazzo Rosso a Genova; del 1617-18 quella oggi esposta al Museo del Prado a Madrid; del 1639-40, infine, quello della Pinacoteca Nazionale di Bologna. Di tutti esiste un consistente numero di repliche, non ultima questa ozierese realizzata certamente prima del 1652, in un’epoca quando, forse, era ancora in vita l’eccelso maestro bolognese.

La strettissima somiglianza tra la copia capitolina e quella genovese non impedisce di cogliere nella tela ozierese alcuni particolari che propendono per l’identificazione nella prima del modello di riferimento. Tra questi, al di là dell’evidente postura delle braccia e delle  mani, si riscontrano il determinante dettaglio della ciocca di capelli rossi sulla fronte del martire  e quello particolarissimo di un piccolo ramo dell’arancio (emblema di purezza) al quale il santo è legato e del disegno della vegetazione dello sfondo.

La possibilità del raffronto con l’originale, nel quale le dita della mano sinistra del martire lambiscono il limite superiore del supporto, escluderebbero l’eventualità di un ridimensionamento della tela ozierese. L’ipotesi è supportata dalla maggiore concentrazione di dardi nella parte superiore della figura per l’indisponibilità di una tela di dimensioni uguali a quella dell’originale. Di qui l’opportunità di operare una riduzione in scala e di alcuni adattamenti rispetto alla tela capitolina.

L'artista bolognese allievo dei Carracci, detto il Divin Guido per la sublime misura classica della sua pittura, nella copia capitolina concentra l'attenzione sull'aspetto mistico dell'episodio e non sulla sofferenza del santo. Particolarmente significativa, nell’elegante purezza formale soffusa di una vena sottilmente elegiaca, è l'impostazione della figura del San Sebastiano con “la testa rivolta all'insù”. Come avverte lo storiografo bolognese seicentesco Carlo Cesare Malvasia: «più d'ogni altro similmente intese le teste guardanti all'insù, onde ottimamente seppe girarle, facendo camminare tutte le parti per l'istessa linea rotonda…Onde non parrà iperbole ciò di che vantassi a tal proposito, dargli l'animo di far in cento modi diversi le teste cogli occhi alzati e rivolti al cielo».

Di contro, il San Sebastiano ozierese umanamente più sofferente, lacerato nelle carni sanguinanti da quattro piccoli dardi, con sguardo languido, appena accigliato, abbassa le braccia riparando il capo dall’iniquo destino. La sovrapposizione di nuovi strati di colore, particolarmente sul petto, ha intaccato ma non  compromesso l’originaria, straordinaria bellezza di un’opera di grande valore artistico, attribuibile ad un ignoto artefice di sicuro mestiere, certamente non sardo, forse attivo a Roma, dove anche il Reni aveva operato e dove Pietro Spanu potrebbe averla acquistata.

In tempi più recenti il San Sebastiano del miracolo fu trasferito dalla cattedrale presso l’omonima chiesetta ozierese, dove ancora oggi “è possibile ammirarlo” sotto una luce fredda che non rende giustizia né alla grazia ricevuta né alla straordinaria bellezza dell’immagine sacra.

Se non fosse per la comunque indiscussa devozione dei fedeli, si oserebbe dire che in quel tubo al neon si ravvisi l’ultimo “dardo” del martirio del santo. Una indelicatezza alla quale si potrebbe facilmente ovviare trasferendo la tela presso le sale del Museo Diocesano di Arte Sacra, dove costituirebbe uno dei pezzi di maggiore attrazione, e dove  luci e impianto di sicurezza garantirebbero una migliore fruizione e conservazione.

Una soluzione di compromesso potrebbe essere quella di restituirlo alla diretta devozione nella chiesa a lui intitolata ogni 20 gennaio, giorno della festa del santo. Così come accade in molti musei diocesani (uno per tutti quello di Alghero), nel quale gli oggetti d’uso liturgico sono concessi in prestito per la celebrazione dei riti e puntualmente riconsegnati al Museo, senza che la comunità dei fedeli si senta in alcun modo defraudata di un autentico simbolo devozionale.

Se questo - come ci si auspica - dovesse accadere, sarebbe opportuno sottoporre il dipinto ad una preventiva opera di restauro. Lo stato dell’opera raccomanda un consolidamento generale, una reintelatura e una rimozione delle ossidazioni del colore e delle densi polveri di fumo che ne pregiudicano la completa lettura. Una spesa, considerate le modeste dimensioni di un dipinto concepito originariamente per una devozione domestica, modesta e facilmente sostenibile, e doverosa sia per l’evidente valore artistico e, ancor di più, per grazia ricevuta.

 

Il saggio è pubblicato in "Voce del Logudoro", Ozieri, 6 marzo 2005, p. 3

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