di Fabrizio Sanna

 

Dopo la conquista bizantina (534) la Sardegna, strappata ai Vandali, formò una delle sette province africane costituite dall'imperatore Giustiniano e messe da lui alle dipendenze di un prefetto del pretorio residente a Cartagine. Come la Numidia e la Mauritania l'isola ebbe un proprio Praeses con compiti di amministrazione civile con sede a Cagliari e un Dux con funzioni d'amministrazione militare con sede nel centro di Forum Traiani, l'odierna Fordongianus (le Aquae Hypsitanae che Tolomeo pone fra i centri all'interno dell'isola) nella pianura del basso Tirso.

  Una delle modalità d'irradiazione della cultura bizantina in Sardegna si esplica quindi attraverso il controllo militare delle principali arterie stradali romane: in particolar modo la strada a Caralibus Turrem, poi denominata "via dei Greci" fu mantenuta in efficienza attraverso una serie di Stazioni militari, presso le quali furono edificate chiese come quella di San Sergio a Mulargia (la romana Molaria), dedicate ai santi militari del menologio greco. Lo stesso centro romano di Luguido (forse uno dei Castra Felicia ricordati dall'Anonimo Ravennate) nei pressi della chiesa di Nostra Signora di Castro nel territorio di Oschiri, ha rivelato una continuità della vita urbana ed anzi uno sviluppo non interrotto nel primo periodo bizantino (testimoniato inoltre dallo stesso agiotoponimo di San Simeone santo militare venerato dai bizantini, che denomina il colle dove emergono i ruderi del centro). E' evidente che la presenza bizantina tende a sovrapporsi ai centri romani preesistenti, privilegiando non solo gli insediamenti militari ma anche i centri costieri espressione del potere laico ed ecclesiastico; si pensi a Porto Torres, l'antica Turris Libisonis, a Cornus e Sulci sede quest'ultima d'importante santuario martiriale della Sardegna.

  L'altra modalità di penetrazione della tradizione culturale bizantina in Sardegna è rappresentata dalla diffusione capillare della Chiesa greca, sia attraverso la fondazione di complessi monastici di cui però abbiamo rarissime testimonianze archeologiche, sia attraverso la presenza d'insediamenti rupestri (come "l'altare" di Santo Stefano) che nella maggior parte dei casi riutilizzano grotte naturali e ipogei scavati nella roccia riferibili all'età preistorica. Un monachesimo cenobitico ed eremitico quindi, che si diffuse in tutta l'isola, anche all'interno della Barbagia che fino all'intervento d'evangelizzazione di papa Gregorio Magno (VI-VII secolo) fu roccaforte di una religiosità ancora pagana.

  E' forse in un contesto di monachesimo eremitico che va valutato l'interessante complesso monumentale di Santo Stefano nel comune d'Oschiri in provincia di Sassari. L'area archeologica di Santo Stefano (in cui si attesta la presenza di complessi megalitici e domus de janas), nota alla Soprintendenza Archeologica di Sassari già dagli anni 60 ma mai sottoposta ad un'indagine di scavo sistematica, prende il nome dalla piccola chiesa, il cui impianto attuale è comunque tardo. Fronte alla chiesa, in un'area caratterizzata da rocce granitiche tafonate, sono le "emergenze" rupestri di Santo Stefano. Su una massiccia emergenza granitica è scavata, su due registri, una serie di nicchie di forma quadrata, triangolare e circolare dalla profondità variabile (fig. 1).

 

 

Nel registro inferiore rileviamo (partendo da sinistra verso destra) (fig. 2) la presenza di nove nicchie: cinque triangolari e tre di forma quadrata.

 

Le nicchie triangolari sono intervallate prima da un riquadro caratterizzato da una doppia modanatura, sormontato da un triangolo in cui è inscritta una croce greca (fig. 3),

poi da una nicchia quadrata, scavata nella parte mediana dell'emergenza rocciosa. Nel registro superiore si rilevano sette nicchie, cinque di forma triangolare (tre sono contornate da una serie di coppelle) (fig. 4)

e due di forma circolare in una delle quali è tracciata un'altra croce greca. All'estrema destra del costone roccioso e un'altra ampia nicchia circolare, circondata da dodici coppelle, che possono richiamare il Cristo con i dodici apostoli. Nelle immediate vicinanze della chiesa, in un altro spuntone granitico, si consta la presenza di due nicchie triangolari (fig. 5)

nonché di una teoria di tre nicchie quadrate (fig. 6).

Nell'agro circostante, si rilevano due croci greche, incise sulla roccia, una inscritta in un quadrato, l'altra inserita in un cerchio (fig.7).

Fronte alla chiesa è stata scavata nel granito una unga nicchia rettangolare (attorniata nella parte superiore da coppelle) forse riferibile ad una sepoltura (fig. 8).

verso la presenza d'insediamenti rupestri (come "l'altare" di Santo Stefano) che nella maggior parte dei casi riutilizzano grotte naturali e ipogei scavati nella roccia riferibili all'età preistorica.

  Come si accennava in precedenza, queste strutture possono forse riferirsi ad un contesto di monachesimo eremitico, nell'ambito di un orizzonte culturale bizantino. Il comune d'Oschiri si trova, infatti, in quell'area geografica della Sardegna, dove è particolarmente diffuse e attestato il fenomeno degli insediamenti ripestri. Ad esempio per alcuni aspetti, il sito di Santo Stefano si può assimilare al Monte Santo nella campagna di Mores, dove in età protobizantina è stato riutilizzato un ipogeo preistorico scavato nella roccia, noto come Crastu de Santu Lioseu. L'insediamento di Mores (come il sito d'Oschiri) potrebbe essere una sorta di laura nella quale non si esclude che i monaci occupassero le piccole grotte, ricavate da anfratti naturali o da domus de janas ricontestualizzate ad un nuovo uso. Anche nel sito di Santo Stefano si riscontrano complessi megalitici e preistorici: si nota la presenza di roccee tafonate e domus de janas forse riutilizzate (come l'insediamento di Mores) come celle di monaci bizantini.

  Questa ricontestualizzazione dei luoghi di culto preistorici durante l'età protobizantina si rileva anche nel territorio di Bonorva, dove la chiesa di Sant'Andrea Priu si insedia, in età paleocristiana, in un articolato ipogeo preistorico. In particolare nell'insediamento di Bonorva si rileva in prossimità di tombe bizantine, nel nartece, la presenza di una nicchia circolare attorniata da dodici coppelle scavate nella roccia, del tutto simile alla medesima iconografia scolpita nel granito di Santo Stefano ad Oschiri.

  Questa tipologia di insediamenti rupestri con la tendenza all'isolamento e all'eremitismo, è comune a quei territori dell'area meridionale dell'Italia, che furono sotto la sfera di influenza culturale e politica di Bisanzio. Tipologia d'insediamenti monastici che sono attestati inoltre anche nei territori dell'Egitto e della Palestina.

  E' problematico fornire argomentazioni sicure e definitive sulla destinazione d'uso di queste strutture scavate nella roccia. Per correttezza scientifica e metodologica, sembra opportuno elaborare solo delle ipotesi, che possano perlomeno sollecitare nuove prospettive d'indagine relativamente a quest'insediamento.

  Difficile (contrariamente a quanto afferma Paola Basoli) pensare che queste nicchie e le figure geometriche scavate nella roccia possano riferirsi a manifestazioni dell'iconoclastia. Contro queste tesi si possono addurre alcune argomentazioni abbastanza razionali e plausibili.

  E' discutibile sostenere che l'iconoclastia, la controversia sulle immagini che nell'VII e IX secolo sconvolse l'oriente bizantino, possa essersi radicata in una provincia lontana come la Sardegna. La Chiesa sarda, se come affermano sia il Casula sia il Cherchi Paba, era autonoma e autocefala, non avrebbe accettato l'intromissione nè della gerarchia ecclesiastica bizantina nè tantomeno di quella romana, che in ogni caso nel 732 con papa Gregorio II tenne a Roma un concilio dove fu condannata l'eresia degli iconoclasti.

  In quest'ottica a favore d'una probabile iconodulia della chiesa Sarda, si pensi che quando fu convocato il concilio di Nicea (dove si afferma che le croci, le sante Immagini dipinte, scolpite o cesellate devono essere esposte alla venerazione dei cristiani), Tomaso II primate della Sardegna, delegò a rappresentare la Chiesa sarda il diacono Epifanio della Chiesa di Catania.

  Altra interessante testimonianza a favore dell'iconofilia dei sardi in periodo iconoclasta, si trova nella vita di San Teodoro Studita, l'irriducibile capo degli iconoduli che tanto filo da torcere diede all'imperatore e alla Chiesa iconoclasta bizantina. Nella vita di San Teodoro è narrato un miracolo che interessa proprio la Sardegna. Nell'isola si cantavano i suoi inni contra orationes leges, quindi contro le disposizioni di Leone III Isaurico a favore dell'iconoclastia.

  Se per l'aspetto storico la Sardegna sembra non aderì al moto iconoclasta (lo stesso Runciman sosteneva come nell'Italia meridionale il moto iconoclasta non avesse fatto proseliti), anche in relazione alla destinazione d'uso di questa struttura possiamo elaborare alcune ipotesi. Le cavità scavate nella roccia presentano una certa profondità e con probabilità erano concepite per ospitare simulacri. Non possono essere quindi intese come rappresentazioni simboliche. Si nota poi come le nicchie triangolari del registro superiore (fig. 9)

siano circondate da coppelle. Queste ultime possono intendersi come decorazioni che "incoronano" i simulacri che avrebbero alloggiato nelle nicchie.

  Vero che alcune figure geometriche presentano una profondità minima, ma in quel caso si può pensare ad alloggi per pannelli lignei con immagini dipinte. Oltre la disposizione ternaria di queste nicchie, possiamo notare la presenza di due cerchi scavati nella roccia attorniati da dodici coppelle allusione abbastanza esplicita (come accennato in precedenza) al Cristo con i dodici apostoli.

  E' questa l'unica iconografia aniconica (dell'immagine di Cristo) che potrebbe essere ricondotta ad un ambito iconoclasta. Nulla di strano che accanto a simulacri o immagini dipinte potessero esserci delle "concessioni aniconiche". Fin dal cristianesimo dei primi secoli, ad esempio, bene è attestata nelle catacombe la convivenza d'immagini simboliche con rappresentazioni figurate.

  Si può quindi ipotizzare che queste strutture possano riferirsi ad un altare all'aperto (o forse protetto da coperture lignee) in cui andavano a pregare quei monaci che alloggiavano nelle vicine domus de janas ricontestualizzate ad un nuovo uso. Se l'insediamento eremitico sembra l'ipotesi più- plausibile, non si può escludere a priori che il santuario di Santo Stefano possa collegarsi ad un insediamento monastico di tipo cenobitico, che magari sorgeva proprio nell'area dove i attualmente è la chiesa dello stesso titolo. Scavo archeologico ed una ricerca interdisciplinare potranno dare a conferma e allargare nuove prospettive d'indagine.

Tratto da F. Sanna, L'altare di Santo Stefano a Oschiri, in "Sardegna Antica", a. XI, n. 21.