di Gian Gabriele Cau

 

Nel mondo accademico sardo la datazione del Retablo maggiore di Santa Maria del Regno di Ardara non ha mai costituito argomento di discussione. Anche se trascritta in maniera differente, talvolta originale, sulla lettura di quella data espressa in caratteri romani alla base dell'ancona pacificamente tutti concordano: 1515.

Sulla predella del retablo è infatti dipinto il cartiglio: IOAN[N]ES M/URU ME PINS/IT e l'epigrafe: EN L'A[N]I MVXv (leggi MDXV) / [H]OC OPUS FESIT FIERI MOSEN / IOAN CATAHOLO ASIPR[E]STE ET / DONU BAINIU VALEDU ET DON/U VALE[N]TINU DETORI ET MASTRU / BAINIU MARONIU ET DONU / PEDRUSU MAN[N]US OBRE[RE]S. La datazione al 1515 è da intendersi corretta se si intende riferita alla sola predella, errata se estesa all'intero retablo, in quanto frutto di una lettura inesatta dei caratteri, che trascura la genesi dell'epigrafe e quindi del retablo stesso. Paradossalmente, nonostante la giusta lettura, sono infatti convinto dell'errata interpretazione dei caratteri romani in epigrafe MVXV - da leggere e intendere con valore di 1515 - ma erratamente trascritti in MDXV e MVXD, e ritenuti validi da tutti gli storici dell'arte per l'intero retablo.

 

 

Nel primo caso (MDXV) si forza la trascrizione della lettera "V" per farla diventare una "D". Nel secondo caso (MVXD), invece, verrebbe violata anche la regola che, nella numerazione romana, impone l'ordine decrescente del valore delle lettere, da sinistra a destra, confondendo l'ultima lettera, una "V" minuscola con una "D" e la terza lettera, la "V" con valore attribuito di 5, con una "V", che però realmente - solo in questo caso - ha un valore di 500.

  Il cartiglio che riferisce il nome del Muru e le ultime due cifre della data sull'epigrafe sono - a mio avviso - successive alla realizzazione del retablo e apposte dal Muru una decina di anni dopo la realizzazione dello stesso, che - predella esclusa - indiscutibilmente è stato realizzato da almeno due ignoti artisti agli inizi del XVI secolo, quando è documentata l'attività dell'arciprete della cattedrale di Bisarcio, prebendato di Ardara Giovanni Cataçolu, committente dell'opera ed esso stesso raffigurato al capezzale della Madonna nello scomparto della Dormitio Virginis.

  L'ipotesi che qui si propone è supportata da quel cartiglio posticcio, che cancella e si sovrappone ai caratteri della precedente epigrafe - probabilmente DONI per DO[MI]NI - modificandone il significato. Se fosse stato Giovanni Muru l'autore di quella scritta non avrebbe, evidentemente, dimenticato di inserire il suo nome né, probabilmente, avrebbe osato scrivere sulla cornice della tavola per non compromettere l'estetica di un dipinto di elevato valore artistico. La sua estraneità al testo originale è più evidente se si legge e traduce epigrafe e cartiglio secondo la conseguenza delle lettere, così come appaiono sul sarcofago: "nell'anno Giovanni Muru mi dipinse 1515". Insostenibile. Una corretta costruzione sintattica avrebbe riferito nell'ordine: "nell'anno 1515 Giovanni Muru mi dipinse" o in alternativa "nell'anno 1515 mi dipinse Giovanni Muru". E' evidente, quindi, come l'artista abbia operato su un'epigrafe preesistente - forse opera degli stessi obrieri in questa menzionati - adattandola alle necessità del momento. 

   Superato col cartiglio il problema dell'inserimento tardivo del proprio nome, il Muru risolve il problema dell'aggiornamento della data ricorrendo a dei caratteri romani differenti da quelli che utilizza nel piccolo cartiglio e dagli altri dell'epigrafe originale. A sostegno di questa ipotesi è anche il disallineamento inferiore della lettera "X", che in basso sfonda di circa un centimetro quella riga ideale sulla quale insistono le altre lettere, nonostante lo stesso Muru avesse tracciato dei punti di riferimento in alto e in basso, punti che non si rilevano nelle righe seguenti. Inoltre il tratto delle ultime due lettere, "X" e "V", si presenta più spesso e più scuro rispetto a tutti gli altri caratteri.

  Secondo la mia ipotesi, originariamente nella prima riga dell'epigrafe appariva, in un latino catalaneggiante, la seguente scritta rispettosa della regola sintattica comune, riscontrabile in ogni epigrafe latina (anno, complemento oggetto, verbo e soggetto): EN L'A[N]I (DO[MI]NI) M[D]V [H]OC OPUS FESIT FIERI MOSEN / IOAN CATAHOLO etc… nell'anno del Signore 1505 quest'opera fece realizzare mossen Giovanni Cataçolo etc… , ad indicare il termine di ultimazione della prima stesura del retablo. La lettera  D  che indicherebbe 500 è letteralmente sottintesa, occultata dal lembo del lenzuolo del Cristo in pietà raffigurato al centro della predella, in quanto, essendo appena iniziato il nuovo secolo (D = mezzo millennio), era facilmente intuibile e non lasciava adito ad equivoci di sorta. D'altra parte la breve distanza tra i caratteri  M  e  V  non consentirebbe l'inserimento di nessun'altra lettera.

  Ciò comporterebbe come conseguenza una retrodatazione al 1505 dell'intero retablo e una diversa trascrizione della data della predella, MVXv = 1515. Straordinariamente - secondo questa ipotesi - la lettera  V  con valore ordinario di 5 unità, in questo particolare caso, tra un'indubbia  M  e altrettanto certe  XV , assume il valore di 5 centinaia, perché come tale lo assunse il Muru, non comprendendo che la  D  era sottintesa, celata dal lembo di lenzuolo del Cristo in limbo. Al solo fine di distinguere la  V  con valore di 500 dalla  V  con valore di 5, lo stesso Muru - al termine della sua attività - scrisse quest'ultima (la precedente  X  è maiuscola anche se con carattere differente) in minuscolo, a significare il valore minore attribuito alla stessa.

  Tra tutti gli studiosi Enrico Costa fu l'unico che, pur non giungendo ad una soluzione, affrontò il problema della "particolarità" dell'epigrafe. In Un giorno ad Ardara pubblicato nel 1899 giustamente intuì che il lembo del lenzuolo nascondesse un'altra lettera che però non seppe indicare con convinzione. Secondo lo scrittore sassarese quella lettera sarebbe potuta essere la "I" che, in quanto precedente la lettera "V", cui lui attribuì valore di centinaia, sortiva l'effetto di anticipare la data di un secolo al 1415 (M[I]VXV). L'ipotesi fu scartata dallo stesso studioso, che per quanto sostenitore di una realizzazione del retablo nel XV secolo, giudicò egli stesso improponibile una datazione così fortemente anticipata. Il Costa col Bettinali fu tra i pochi ad ipotizzare che quella del 1515 fosse la data riferita alla sola predella, mentre la restante parte sarebbe stata dipinta in precedenza in un periodo non precisato.

  Renata Serra, in uno studio sul Ruolo delle stampe nella pittura in Sardegna ha identificato un gran numero di modelli ispiratori delle tavole del Retablo maggiore di Ardara. La datazione di due stampe di Albrecht Dürer, l'Annunciazione e la Resurrezione, entrambe tratte dalla Piccola Passione del 1510 circa e dalla studiosa proposte per l'ispirazione degli analoghi scomparti del retablo, mal si concilierebbero con la datazione del retablo che, qui ritenuto ultimato entro il 1505, non potrebbe presupporre quelle stampe non ancora edite.

  Il problema è superabile poiché il soggetto nel primo caso sarebbe ispirato all'Annunciazione tratta dal ciclo della Vita della Vergine del Dürer pubblicato tra il 1503 e il 1505. Nel secondo caso il Risorto avrebbe avuto a modello a quello del riquadro centrale del tabernacolo del Retablo di Tuili di Gioacchino Cavaro, il Maestro di Castesardo, già ultimato nel giugno 1500 e nel quale il Cristo appare con i piedi in terra, avendo alle spalle il sarcofago. Altri particolari iconografici quali la positura del capo e degli arti inferiori, l'aureola dorata con i raggi a "T", il volume del manto alla sua destra e le evidenti fisionomie che si ritrovano fedelmente riproposte nella tavola dell'Ancona di Santa Maria del Regno, fugherebbero ogni dubbio residuo. L'ipotesi appare maggiormente plausibile se si considera che in un'altra tavola dello stesso retablo, il San Gavino, "si staglia contro un fondo marino con gli stessi effetti delle onde predisposti dal Maestro di Castelsardo nel riquadro della Vocazione nella predella del Retablo di Tuili" (W. Paris).

  Storicamente l'anticipazione della datazione del retablo al 1505 confermerebbe l'immediata reazione dei diocesani e dell'arciprete di Bisarcio Giovanni Cataçolo che - secondo quanto riferito dal canonico Giovanni Spano - si recò personalmente a Roma per invitare papa Giulio II a ritirare la bolla "Aequum reputamus" del 26 novembre 1503, con la quale era stata soppressa la diocesi Bisarcio ed accorpata, con quelle di Castro e di Ottana, a quella di Alghero, fondata con quella stessa bolla. Lo stesso arciprete si prodigò per la realizzazione di due nuovi retabli, ad Ardara, a Bisarcio al fine di fare apparire agli occhi del papa le antiche diocesi soppresse ancora meritevoli del titolo.

  Tanta tempestività nascondeva forse ragioni meno nobili di quelle di culto e interessi economici diretti di un arciprete, che godeva dei benefici e delle rendite senza, forse, essere neanche prete (vedi F. Amadu in "La Voce del Logudoro" n.17 del 6 maggio 2001). In altri termini il Cataçolu aveva necessità di recuperare in tempi rapidi quelle prebende di cui, in quanto arciprete, era titolare. Questo giustificherebbe l'impegno di più artisti forse neanche tutti sardi, tutti contemporaneamente e affannosamente impegnati nella realizzazione dello stesso retablo. Non si può anzi escludere che il monumentale dipinto, tra i più grandi mai realizzati in Sardegna (m 10 x 6), possa essere stato presentato al pubblico ancora prima che fosse del tutto ultimata la predella, forse per mancanza di tempo o, secondo quanto riferito dal canonico Spano, per esaurimento dei fondi.

  Sosterrebbe questa seconda ipotesi il rallentamento dei lavori per la realizzazione del retablo di Bisarcio. In occasione della visita pastorale effettuata da don Giovanni Francesco Rocca per conto del vescovo di Alghero Durante Duranti il 12 maggio 1539, l'altare maggiore di S. Antioco di Bisarcio è così descritto: "posat en bona forma contenint ensi lo peu del altar ab tot complime[nt]s e n[ost]ra S[enyo]ra ab son Jesus de bulto i dos quadros dela nuciacio y nativytat de aq[ue]ll [,] lo restant a complime[nt]s ded[i]t altar esta en divierses pesses de lenyam no pintat ny messa en obra. Lo altar de dicte retable es de pedra sost[i]ngut de cinc colomnes", lasciando intendere l'esistenza di un retablo dotato di predella, di due scomparti e del simulacro della Vergine col Bambinello, ma non ultimato (cf. ASDAlghero, Registro delle visite pastorali di Durante dei Duranti e Pietro Vaguer vescovi di Alghero e Unioni (1539-1550), f. 10r). Dieci anni dopo, il 29 maggio 1549, l'altare è adorno di "un retaule nou gran lo qual no es acabat [,] encabat encara", (ibidem, f. 121v).

  Più probabilmente, nel 1515, Giovanni Muru, forse richiamato per piccole riprese del testo pittorico comunque ben definito, aggiornò la data e dichiarò la propria paternità artistica in un cartiglio posticcio. Questo induce a credere quel pannello centrale della predella sul quale è la primitiva epigrafe datata 1505.