di Gian Gabriele Cau

Antiche cronache narrano di come Thomas Loçano, nipote del reggidore del feudo sardo di Oliva, nel giugno 1624 allietasse la propria convalescenza, cantando con la chitarra con i suoi amici, don Francisco Tola Porcu e altri cavalieri di Ozieri. Nello stesso mese e nello stesso anno, un rapimento da parte di un altro signorotto spagnolo ai danni di una giovane popolana (un episodio che ricorda da vicino quello di manzoniana memoria dei Bravi di don Rodrigo su Lucia Mondella) avviene presso la chiesetta rupestre di San Pantaleo, nei pressi di Chilivani, durante i balli e i festeggiamenti in onore del Santo. Per ultimo, nel 1666, riferiscono altre fonti documentarie, la Collegiata di Santa Maria, l'attuale Cattedrale, dispone l'acquisto di un "ispinette", precursore del moderno pianoforte, per l'accompagnamento delle funzioni liturgiche, assumendo l'impegno di pagare una cifra ad un organista provetto, che da Alghero venisse ad Ozieri per insegnare la musica anche ai sacerdoti del posto.

Sono di certo questi i primi episodi che storicamente documentano una cultura e un interesse della gente di Ozieri per la musica, anche se mi pare probabile che, così come presso altre etnie, senza limiti di latitudine o di tempo, da sempre la musica abbia accompagnato il vivere quotidiano di ogni uomo. Ma quanto esposto in queste pagine che verranno, non è un percorso nella più lontana storia, alla ricerca di un'evoluzione di canti che certamente si sanno essere ozieresi, quanto piuttosto un percorso, attraverso tracce documentali sonore, in quella storia musicale della città scritta nelle sale d'incisione dagli stessi protagonisti.

Una storia particolare dunque, forse una storia minore. Comunque solo una parte di storia, che ignora, ma non esclude, che trascura ma non dimentica quanti non hanno avuto la fortuna o il privilegio di lasciare una traccia meccanica, un solco su di un disco o un nastro di plastica, del loro talento artistico.

Primo protagonista di queste vicende discografiche cittadine fu, e altrimenti non sarebbe potuto essere, il popolare "canto a chitarra". Quasi avvolta da un misterioso alone leggendario, la storia assume contorni sfumati e indefiniti e sembra abbia avuto inizio nel 1931 circa a Milano, presso gli studi della casa discografica "Excelsius", grazie al merito artistico di due "cantadores" scomparsi da tempo, ma sempre vivi nella memoria di chi, solo i più anziani, ha avuto modo di conoscere e apprezzare le rare qualità vocali, Giuseppe Langiu (1898 - Sassari 1972) e Antonio Bellu ( ).

In un'unica seduta di registrazione i due ozieresi ebbero l'occasione di incidere singolarmente e in coppia, ma quasi sempre con l'accompagnamento dell'acclamatissimo chitarrista Nicolino Cabitza di Ploaghe e, talvolta, del fisarmonicista Celestino Fogu. Segno evidente, questo, che allora come oggi l'organetto, ad Ozieri, non era guardato con simpatia, ma alla stregua di un estraneo, quasi un intruso.

Il repertorio, ben rappresentato in undici dischi per un totale di ventidue brani, due per ogni disco (tanti ne permetteva il disco a 78 giri), racchiude i generi musicali del "canto a chitarra" maggiormente diffusi: dai canti in Re all'Ozieresa e alla Nuoresa ai Muttos, dagli Amenti galluresi al Mi e la, dalla Disperata logudoresa alla Ploaghesa, finanche a canzoni estemporanee quali All'eroismo sardo, (versi a Garibaldi e alla Brigata Sassari), l'Inno sardo o il Canto nuovo n.5, un canto sardo dedicato al Duce, scritto dallo stesso Langiu.

Si deve ritenere fortunato il sodalizio tra i tre artisti se, appena tre anni dopo, nel 1934, si ritrovano ancora a Milano per incidere, stavolta per la "Fonotecnica Fonola", altri quattro dischi sulla falsariga delle incisioni "Excelsius".

 

Tuttavia uno degli eventi più significativi della vicenda discografica cittadina, e non solo, si compie, ancora una volta a Milano, il 23 maggio 1932, quando, presso gli studi della multinazionale "Grammofono" (ridenominata qualche anno dopo "La voce del padrone"), Maria Rosa Punzurudu (1887 - 1964), misurandosi con il canto di Gavino De Lunas (un impiegato delle poste di Padria fucilato qualche anno più tardi alle Fosse Ardeatine) incide pochi ma memorabili canti. Un incontro che per la caratura degli interpreti coinvolti (completava il trio Nicolino Cabitza alla chitarra) non esiterei a definire storico.

 

 Non era certamente un fatto comune, per l'epoca, che in Sardegna una donna varcasse l'ingresso di una sala d'incisione. E Maria Rosa, prima interprete femminile del canto popolare sardo, fu seconda, e di pochissimo tempo, solo a Carmen Melis (1929), il soprano cagliaritano nel tempo divenuto maestra di canto della grandissima Renata Tebaldi.

 

Amatissima dal pubblico dei palchi delle feste grandi, Maria Rosa in quegli anni ebbe, tra gli altri onori, quello di esibirsi davanti a Pio XI. Di lei ha scritto Gavino Gabriel: "aveva in gola non tanto voce quanto pianto" e Michelangelo Pira, rimarcando le qualità interpretative e il forte sentimento che accompagnavano le sue esibizioni, invitava: "chi ha conservato qualche disco di Deluna e della Punzurudu se lo tenga caro"; un numero di incisioni purtroppo minimo e, comunque, appena sufficiente a renderci un'idea delle sue straordinarie qualità canore.

  Il testo di A sa mugere morta, tipico canto in Re "all'ozierese", è tratto da una poesia, "S'attitidu", il piagnisteo, del bonorvese Paolo Mossa, nella quale si narra il profondo strazio e tormento del poeta e dei congiunti per la morte prematura di Gisella, sua seconda moglie. I pochi versi cantati appartengono a due strofe, nelle quali il dolore è della suocera e del marito della scomparsa, parti interpretate ora da un De Luna in ruoli femminili, ora da una Punzurudu in ruoli maschili, uniti in un pathos che travalica ogni distinzione di sesso. In Alice mia, un canto in Re e Do forse dello stesso De Luna, la voce di Maria Rosa sfiora limiti di estrema bellezza che ben rappresentano il melisma, quella sorta di intimo concerto molecolare riconosciuto ed esaltato da Gabriel nei cantori sardi. Toni nettamente più vivaci si ritrovano, invece, nei "muttos" Domanda de amore e Muttos a dispreziu, secondo un consumato copione che vede due innamorati scambiarsi ogni sorta di complimento. Un ruolo del tutto marginale è assegnato, infine, a Maria Rosa in In su zilleri de ziu Luisiccu, una banale scenetta comica recitata e scritta dallo stesso De Luna e in Lodi alla Vergine delle Grazie nel quale la voce della cantante si disperde tra quelle del coro.

  Sul finire degli anni Trenta è chiamato a lasciare testimonianza discografica delle sue qualità di poeta sensibile e acuto Antonio Cubeddu (1863 - Roma 1954), inventore, secondo tradizione, delle gare poetiche dialettali (Ozieri, Festa della B.V. del Rimedio 1896). Quanto resta sono tre rari dischi della "Homochord", un'esclusività della ditta Ferraris di Sassari, in cui sono raccolte tre piccole gare, in cui il nostro compete con Andrea Ninniri di Thiesi.

  

 Con l'accompagnamento di un "coro a tenores" di cui si ignora la provenienza, le gare si sviluppano intorno a temi quali: Paghe e gherra (Ninniri canta la guerra, Cubeddu la pace), Amore e dolore (Ninniri difende l'amore, Cubeddu il dolore) e Chie salvare sa mama o s'isposa? (Cubeddu salva la madre, Ninniri la sposa). "Pro chi s'andànta seberada pro cussu discu dae Cubeddu e Ninniri siat più lestra 'e s'andànta 'e piata, - ha di recente scritto Paolo Pillonca - si cumprendet chi tiu Cubeddu cantaiat lestru etotu, aiat una 'oghe bella, unu traggiu ondradu meda 'e melodia e cheriat su tenore joba pro joba 'e sos versos de s'otava: a su segundu, a su 'e bator, a su 'e ses e pro sa serrada".

  Gli anni Quaranta, causa il perdurare dell'impegno bellico, non favorirono l'estro creativo e, per dirla con Quasimodo e col Salmista, anche gli ozieresi "appesero le cetre" agli alberi. Stesso clima negli anni della ricostruzione.

  Il compito di rompere un silenzio protrattosi quasi un quarto di secolo è assunto da una giovanissima Maria Teresa Cau (1944 -1977), cui spetta il non facile impegno di raccogliere e porre a frutto l'eredità artistica, ma anche di reggere il confronto con l'indimenticabile Maria Rosa Punzurudu.

  All'età di appena sedici anni, dopo una breve audizione, è chiamata dall'indiscusso re del "canto a chitarra" Leonardo Cabitza a fare parte del "Quartetto Logudoro", nel quale figuravano anche il chitarrista Aldo Cabitza (figlio di Nicolino) ed il fisarmonicista Antonio Ruju . Ed è al loro fianco che tra il 1961 ed il 1964 Maria Teresa incide per la "Vis Radio" di Napoli (la stessa casa per la quale registrava Claudio Villa) ventiquattro brani di rara bellezza: i memorabili duetti con Leonardo, le fresche interpretazioni in gallurese e quella che, a mio avviso, è da considerarsi come l'espressione più alta della sua breve, ma intensa carriera artistica: Cantu de s'antiga terra, un tipico canto in Re "a s'othieresa", genere nel quale eccelleva e nel quale le straordinarie qualità vocali appaiono in tutta chiarezza. "Una voce - ebbe a scrivere un sicuro conoscitore del canto popolare sardo, Giovanni Perria - la cui caratteristica principale e più immediatamente rilevabile, è la dolcezza; una dolcezza resa più penetrante da un costante velo di malinconia. Grazie alla straordinaria elasticità, essa può librarsi superba e sicura verso "acuti" resi stupendi da indefinibili e seducenti vibrazioni per acquisire poi una morbida scorrevolezza nella "calata finale". Una voce intonatissima sempre, ricca di sorprendenti sfumature, che emerge limpida e solare, a tratti squillante da un fondo caldo e fascinoso di chiaroscuro, talvolta intenso e tal altra appena accennato e sfumato".

  Dopo un'interruzione protrattasi per circa due anni, nel 1966 Maria Teresa incide ancora per la "Vis Radio", stavolta accompagnandosi col solo fisarmonicista Ruju, in una nuova formazione denominata "Duo Logudoro". Poi la lunga pausa di riflessione e la lontananza per alcuni anni dalla sala d'incisione. Quella che riappare nei primissimi anni Settanta è una Maria Teresa più matura e intimista, e i canti non sono più quelli della tradizione folclorica sarda, quantunque la "Tirsu", l'etichetta cagliaritana che la ingaggia per breve tempo, si ostini a intitolare il nuovo album "Folclore di Sardegna".

 

  

Malinconia e solitudine, quella sua e quella degli altri, e un disincantato modo di leggere la vita, sono temi ricorrenti della Maria Teresa cantautrice, la prima cantautrice "in limba" della storia del canto sardo. Il successo non arriva immediatamente e, quasi a volere rendere più morbido un mutamento che il grande pubblico tarda a recepire, viene pubblicata dalla "Aedo", all'interno della collana "Le grandi voci del folklore della Sardegna", una musicassetta nella quale i brani tradizionali si alternano con quelli più innovativi. Quindici anni dalla sua scomparsa, il Circolo Culturale "Sa Ena" pubblica, in suo ricordo, un box di musicassette contenente numerosi inediti tra i quali Sa notte iscura, considerato il testamento spirituale della cantante.